
I livornesi in attesa

Gli Americani e le segnorine

Una domenica bestiale a Pontedera 1993
L'omicidio suicidio di Cecina
Rissa in via Terrazzini
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"Noi siamo di Livorno, paura non abbiamo di nessuno.
Siamo di lingualunga e lesta mano…" Il vecchio
ritornello di una altrettanto vecchia canzone popolare
mi viene a mente leggendo sulla rete i commenti all'omicidio
di via Cossa. E' stato un brutto fatto di sangue che
ha turbato tutti. Ma non voglio entrare nel merito.
Non è l'accaduto che mi stupisce anche se,
ovviamente, colpisce e fa dispiacere. Quello che mi
meraviglia è che tanti livornesi siano sorpresi
per l'accaduto, offesi nella loro dignità di
labronici senza macchia, senza paura, colpe in quanto
abitanti di un'isola felice. Dove tutto è giubilo
e letizia, pace e serenità. Da sempre…
Ma davvero la pensate così? Allora è
bene ricordare che la nostra storia è fatta,
come quella di ogni città di porto, di sofferenza,
dolori, lutti e morti ammazzati. E' vero che ci vantiamo
dei nostri trascorsi di coraggiosi risi'atori ma spesso
ci dimentichiamo che loro, i nostri gloriosi antenati
si spaccavano le teste a colpi di rami e si scannavano
a coltellate per conquistare il diritto di scaricare
una nave. Non si può dimenticare la ferrea
legge del quartiere Venezia, forse il più livornese
di tutti gli altri, dove per lustri vigeva la regola
della "Mano nera" per la quale ogni sgarbo
fatto ad un veneziano veniva punito a coltellate e
revolverate. Tempi passati? E' vero ed allora veniamo
a periodi più vicini a noi. Iniziamo dai primi
del novecento, dagli anni dell'avvento del fascismo.
Dal 20 in poi le fazioni in lotta hanno dato il peggio
di loro nelle piazze ma soprattutto in vendette private
dove i nostri concittadini si sono massacrati a vicenda
per mesi. Poi c'è stato il Regime con i pestaggi
dei fascisti che non si contano: erano fascisti ma
pur sempre livornesi. Come sempre nostri concittadini
erano quelli che in massa massacravano chiunque fosse
stato in odore di camicia nera, dopo la Liberazione.
Per il dopo guerra e la ricostruzione basta leggere
il libro di Vivaldi, "Era facile perdersi"
per capire come era facile oltre che perdersi, prendersi
una coltellata o un colpo di pistola. Perché
i problemi si risolvevano sì anche a cazzotti
ma soprattutto con le armi. Livorno, come tutti i
grandi porti, in quegli anni è stato protagonista
di traffici di ogni tipo di merce rubata agli americani
(con la complicità di tanti soldati dell'esercito
di liberatori). Ma anche di merce umana, nel senso
delle Segnorine che tanti fratelli e mariti - livornesi
- non esitavano a mettere a disposizione degli americani.
Ai quali hanno venduto ogni tipo di intruglio spacciandolo
per cognac speciale, realizzato in tante cantine miscelando,
alcol, benzina, zenzero e altre delicatessen del genere.
I livornesi hanno dato vita, con tanti altri italiani,
a Tombolo, il paradiso nero (raccontato da Aldo Santini)
dove si concentrò il peggio degli scarti della
guerra. Ci sono gli anni cinquanta, il sessanta, con
la rivolta della città contro i parà
della Folgore, decine di feriti. Chi aveva ragione,
chi torto? Non entro nel merito, lo ripeto. Scrivo
solo per ricordarci chi siamo.
Anche la bella storia della scazzottata che poi finisce
al bar è da ridimensionare. Perché chi
ha perso un occhio, ha avuto la mandibola sfasciata
non ha mai dimenticato e, al momento opportuno, si
è vendicato. In trent'anni di cronaca nera
- e siamo ai tempi più recenti, ho scritto
decine e decine di articoli per raccontare coltellate,
bastonate e rivoltellate esplose dopo anni di rancori
nascosti. Ricordo la pugnalata alla carotide di un
vecchio partigiano (ottanta anni) ad un amico di gioventù
che tutta Ardenza indicava come l'antico amante della
moglie dell'assassino. Ricordo i pestaggi nel giro
delle bische clandestine, le tante donne di buono
o cattivo affare trucidate sulla strada o negli appartamenti
dai loro livornesissimi compagni, mariti, fratelli.
Ricordo le tante violenze esplose allo stadio e le
imprese della nostra tifoseria (di una certa parte
della tifoseria) in strade e città di tutta
Italia.
E ricordo infine di un potere che ha sempre assecondato
chi pensava a Livorno diversa da tutte le altre città
d'Italia. Una città, la nostra, dove tutti
sono buoni e cari, simpatici e compagnoni. Dove l'ignoranza
regna sovrana e tutti (o quasi se ne vantano) dove
si distruggono opere pubbliche al punto che quando
è stato fatto il Gazebo il sindaco ha disposto
un servizio di vigilanza H24 per combattere i vandali.
Dove si distrugge lo stadio se la squadra non vince,
il palazzetto ad un concerto sia che ci piaccia o
no il concerto. Dove se ne fanno di cose. Come ovunque.
Solo che non ci fa piacere scoprire la verità
e cerchiamo di mascherare la realtà. Durante
il lavoro di cronista ho visto quante volte, tante,
sono stati dati in pasto ai giornali i nomi dello
sciagurato spacciatore albanese o marocchino, con
dovizia di particolari sulle sue generalità
e quante volte invece, per i livornesi birbanti siano
comparse sui giornali solo le iniziali, magari sbagliate.
Si è arrivati perfino a far arrestare dei delinquenti
livornesi alle forze dell'ordine pisane, in modo da
evitare uno spiacevole accostamento del delinquente
alla città. Questo con notevole disappunto
degli investigatori livornesi che avevano lavorato
a lungo e che non vedevano riconosciuto il loro impegno.
Stupiti? Meravigliati? Da ignorantoni livornesi potremmo
esortare quelli che credono nell'isola felice a smettere
- come dice un vecchio labronico proverbio - di fare
le vergini nel casino. Quell'isola non c'è.
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