Maurizio Silvestri
Livorno, l'isola felice...
...che non c'è !
a cura di Maurizio Silvestri


I livornesi in attesa



Gli Americani e le segnorine



Una domenica bestiale a Pontedera 1993



L'omicidio suicidio di Cecina



Rissa in via Terrazzini

"Noi siamo di Livorno, paura non abbiamo di nessuno. Siamo di lingualunga e lesta mano…" Il vecchio ritornello di una altrettanto vecchia canzone popolare mi viene a mente leggendo sulla rete i commenti all'omicidio di via Cossa. E' stato un brutto fatto di sangue che ha turbato tutti. Ma non voglio entrare nel merito. Non è l'accaduto che mi stupisce anche se, ovviamente, colpisce e fa dispiacere. Quello che mi meraviglia è che tanti livornesi siano sorpresi per l'accaduto, offesi nella loro dignità di labronici senza macchia, senza paura, colpe in quanto abitanti di un'isola felice. Dove tutto è giubilo e letizia, pace e serenità. Da sempre… Ma davvero la pensate così? Allora è bene ricordare che la nostra storia è fatta, come quella di ogni città di porto, di sofferenza, dolori, lutti e morti ammazzati. E' vero che ci vantiamo dei nostri trascorsi di coraggiosi risi'atori ma spesso ci dimentichiamo che loro, i nostri gloriosi antenati si spaccavano le teste a colpi di rami e si scannavano a coltellate per conquistare il diritto di scaricare una nave. Non si può dimenticare la ferrea legge del quartiere Venezia, forse il più livornese di tutti gli altri, dove per lustri vigeva la regola della "Mano nera" per la quale ogni sgarbo fatto ad un veneziano veniva punito a coltellate e revolverate. Tempi passati? E' vero ed allora veniamo a periodi più vicini a noi. Iniziamo dai primi del novecento, dagli anni dell'avvento del fascismo. Dal 20 in poi le fazioni in lotta hanno dato il peggio di loro nelle piazze ma soprattutto in vendette private dove i nostri concittadini si sono massacrati a vicenda per mesi. Poi c'è stato il Regime con i pestaggi dei fascisti che non si contano: erano fascisti ma pur sempre livornesi. Come sempre nostri concittadini erano quelli che in massa massacravano chiunque fosse stato in odore di camicia nera, dopo la Liberazione. Per il dopo guerra e la ricostruzione basta leggere il libro di Vivaldi, "Era facile perdersi" per capire come era facile oltre che perdersi, prendersi una coltellata o un colpo di pistola. Perché i problemi si risolvevano sì anche a cazzotti ma soprattutto con le armi. Livorno, come tutti i grandi porti, in quegli anni è stato protagonista di traffici di ogni tipo di merce rubata agli americani (con la complicità di tanti soldati dell'esercito di liberatori). Ma anche di merce umana, nel senso delle Segnorine che tanti fratelli e mariti - livornesi - non esitavano a mettere a disposizione degli americani. Ai quali hanno venduto ogni tipo di intruglio spacciandolo per cognac speciale, realizzato in tante cantine miscelando, alcol, benzina, zenzero e altre delicatessen del genere. I livornesi hanno dato vita, con tanti altri italiani, a Tombolo, il paradiso nero (raccontato da Aldo Santini) dove si concentrò il peggio degli scarti della guerra. Ci sono gli anni cinquanta, il sessanta, con la rivolta della città contro i parà della Folgore, decine di feriti. Chi aveva ragione, chi torto? Non entro nel merito, lo ripeto. Scrivo solo per ricordarci chi siamo.
Anche la bella storia della scazzottata che poi finisce al bar è da ridimensionare. Perché chi ha perso un occhio, ha avuto la mandibola sfasciata non ha mai dimenticato e, al momento opportuno, si è vendicato. In trent'anni di cronaca nera - e siamo ai tempi più recenti, ho scritto decine e decine di articoli per raccontare coltellate, bastonate e rivoltellate esplose dopo anni di rancori nascosti. Ricordo la pugnalata alla carotide di un vecchio partigiano (ottanta anni) ad un amico di gioventù che tutta Ardenza indicava come l'antico amante della moglie dell'assassino. Ricordo i pestaggi nel giro delle bische clandestine, le tante donne di buono o cattivo affare trucidate sulla strada o negli appartamenti dai loro livornesissimi compagni, mariti, fratelli. Ricordo le tante violenze esplose allo stadio e le imprese della nostra tifoseria (di una certa parte della tifoseria) in strade e città di tutta Italia.
E ricordo infine di un potere che ha sempre assecondato chi pensava a Livorno diversa da tutte le altre città d'Italia. Una città, la nostra, dove tutti sono buoni e cari, simpatici e compagnoni. Dove l'ignoranza regna sovrana e tutti (o quasi se ne vantano) dove si distruggono opere pubbliche al punto che quando è stato fatto il Gazebo il sindaco ha disposto un servizio di vigilanza H24 per combattere i vandali. Dove si distrugge lo stadio se la squadra non vince, il palazzetto ad un concerto sia che ci piaccia o no il concerto. Dove se ne fanno di cose. Come ovunque. Solo che non ci fa piacere scoprire la verità e cerchiamo di mascherare la realtà. Durante il lavoro di cronista ho visto quante volte, tante, sono stati dati in pasto ai giornali i nomi dello sciagurato spacciatore albanese o marocchino, con dovizia di particolari sulle sue generalità e quante volte invece, per i livornesi birbanti siano comparse sui giornali solo le iniziali, magari sbagliate. Si è arrivati perfino a far arrestare dei delinquenti livornesi alle forze dell'ordine pisane, in modo da evitare uno spiacevole accostamento del delinquente alla città. Questo con notevole disappunto degli investigatori livornesi che avevano lavorato a lungo e che non vedevano riconosciuto il loro impegno.
Stupiti? Meravigliati? Da ignorantoni livornesi potremmo esortare quelli che credono nell'isola felice a smettere - come dice un vecchio labronico proverbio - di fare le vergini nel casino. Quell'isola non c'è.

 
 
 

IL QUINTOMORO
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