

Rione Venezia

Ponte Santa Trinità

Ponte Santa Trinità

Ponte Santa Trinità

Viale Caprera
Erta degli Arri'siatori

Viale Caprera

Viale Caprera

Viale Caprera

Viale Caprera

I barconi sugli scali delle ancore

Scali delle ancore

Chiesa Santa Caterina e Domenicani
Fortezza Vecchia
Fortezza Vecchia
Fortezza Vecchia
Scalo Regio in Fortezza Vecchia

Chiesa Santa Caterina
Ponte dei Domenicani

Chiesa San Ferdinando o di Crocetta
Piazza Vittorio Emanuele
attuale Piazza Grande
Piazza Vittorio Emanuele
attuale Piazza Grande

La prima pagina del primo numero
de Il Telegrafo di Livorno
Piazza Carlo Alberto
attuale Piazza della Repubblica
La sede de Il Telegrafo
in Piazza Carlo Alberto
attuale Piazza della Repubblica



Ponte della Venezia

"Il Paradisino" in Venezia
I barconi lungo i navicelli

Il Mastio di Matilde

Otello
Chelli:
settantasei anni, livornese verace, nato nel
quartiere della Venezia, il più caratteristico
della città, mai frequentata una scuola,
quindi autodidatta, giornalista pubblicista,
ha scritto alcuni libri; Livorno, il Mediterraneo
in cucina (prima edizione 1989, 40.000 copie),
La storia del Ponce 1995), La storia del cacciucco
(1996), una edizione delle due storie nel 1999.
Nel 1998 il romanzo La stirpe di Morgiano, nel
2002 Il Moletto - Una storia di mare e di pesca
- stesso anno: Livorno, la ricca Città
delle Nazioni (35.000 copie)
Consigliere comunale eletto quale indipendente
nelle liste di Rifondazione, ex sindacalista,
ex dirigente del Pci, radiato dopo vent'anni,
nel 1969 per la sua appartenenza alla rivista
il manifesto, pubblica raramente se non su richiesta,
perché non intende "raccomandarsi"
alle case editrici. Ha spedito questo racconto
breve che fa parte di una "collana"
di 50 racconti che tiene nel suo computer con
una ventina di romanzi che consegnerà
ai propri figli e nipoti quale unico lascito,
di carattere intellettuale, non possedendo nemmeno
la casa dove abita. |
La
Redazione di Livorno Magazine
ringrazia l'amico Otello Chelli
della gentile concessione
a pubblicare questo suo racconto
carico di emozione e sentimenti
di ogni genere, con un'ambientazione,
quasi surreale, memoria storica
della Città di Livorno
|
IL ROSSO E SELICA
Era
bastato uno sguardo tra il "Rosso" e Selica,
durante una delle tradizionali e numerose cene collettive
che nelle sere d'estate si consumavano sui larghi
marciapiedi del viale Caprera, mettendo assieme tutto
il pescato di una giornata, altri alimenti e gli indispensabili
fiaschi di vino rosso del Chianti, contenuti nelle
madie delle famiglie, più numerosi dei fili
di pane. Si trascorreva una serata in allegria, mangiando,
bevendo, cantando sfottenti stornelli, romanze d'amore
e famose canzoni sovversive, il rione lo era da sempre,
la gente aveva nell'anima sentimenti carbonari prima
dell'Unità e nikilsocialisti subito dopo, soprattutto
quando Vittorio Emanuele II aveva cancellato lo status
di "porto franco" alla città più
garibaldina d'Italia insieme a Brescia e Bergamo,
gettando a spasso centinaia di facchini del porto,
navicellai e barrocciai. In quegli anni era ancora
attiva la "Mano Nera", nata fra i veneziani
per vendicare con il coltello i torti subiti dalla
loro gente. Se la sera era umida si accendeva un bel
fuoco e ci si sedeva tutti attorno consumando la cena,
"buttando a pagliolo" i fiaschi , mentre
il Topo, già alticcio, un bicchiere pieno a
metà posato ai suoi piedi, dava il via alla
festa in qualità di mago della chitarra, nonostante
non conoscesse una nota musicale. Con le sue arie
faceva cantare la notte e rendeva più brillanti
le stelle, aiutato dalla voce di Renata, popolana
tipica, tonalità d'angelo che, se educata e
lanciata sui palcoscenici, sarebbe diventata più
celebre delle più acclamate e corteggiate stelle
del melodramma.
Il "Rosso" era una figura bizzarra, fuori
fase in un quartiere tipico e popolare come quello
della Venezia Nuova, anche se era nato in una delle
antiche case della Tura, la zona che dalla chiesa
di Crocetta si proiettava fino al Ponte di Santa Trinita,
accucciato sotto la mole corrusca della Fortezza Vecchia.
Tornato a casa dopo anni e anni di avventurose peregrinazioni,
durante le quali aveva fatto fortuna, nel suo rione
ritrovava ogni giorno i ricordi di una fanciullezza
dura, ma allegra, indimenticabile. Giornalista e scrittore
di larga fama, ad ogni uscita di un suo libro veniva
osannato dalla critica. Eppure era uno di loro, nato
fra questa gente povera e ostinata, generosa e impulsiva,
discendente di una delle famiglie "storiche"
di questo rione autentico angiporto, abitato da gente
che all'orgoglio delle proprie idee, univa grande
fierezza ed era facile alla zuffa, al coltello e al
revolver, usati spesso per difendere il proprio onore
o gli irriducibili ideali scaturiti dalla rivoluzione
francese e dalle idee di Mazzini, Garibaldi e Carlo
Marx. In gioventù il "Rosso" era
stato un "risi'atore" tra i migliori, uno
dei componenti la famosa carovana di Silenzio e faceva
parte di quella ciurma leggendaria che a bordo di
un gozzo mastodontico, prendeva il mare con qualsiasi
tempo e a forza di remi si recava incontro ai legni
diretti verso l'ansa sicura del porto di Livorno.
Spesso questa barca possente oltrepassava anche la
Meloria per contendere e strappare alle altre ciurme
il diritto allo scarico e al carico delle merci, arrembando
quasi le navi in arrivo, come facevano i saraceni.
In questo modo conquistavano il diritto di pilotarle
nel sicuro accosto della Darsena Vecchia e compiervi
le indispensabili operazioni di manipolazione delle
merci, fornitura d'acqua e viveri, soprattutto verdure,
indispensabili ai marinai per combattere lo scorbuto.
Un modo periglioso e incredibile di guadagnare il
pane quotidiano per la famiglia, ma in quei tempi
il mestiere del "risi'atore", seppure molto
pericoloso, non dava solo il pane, ma anche un certo
benessere, dignità, ammirazione e autorevolezza
tra la gente, ben oltre i confini del quartiere.
Il "Rosso" non aveva parenti. Morti i genitori,
dopo qualche anno i suoi due fratelli erano scomparsi
in mare, una sorella, la sua prediletta, si era innamorata
di un uomo sposato e gli aveva ceduto senza sapere
della condizione di lui. Abbandonata e incinta, si
era buttata giù dal ponte del Porticciolo e
le fredde acque invernali dei fossi l'avevano deposta,
dura come il marmo, ma sempre bella, là, ai
piedi della Fortezza Vecchia, sulla sabbia del cantierino
disteso sulla parte finale della Tura, laddove i calafati
costruivano e riparavano i navicelli, quei barconi
enormi, neri e silenti al passaggio tra le case, sui
quali si caricavano le mercanzie per portarle dalle
navi ai fondaci e viceversa, attraverso la fitta rete
dei fossi fatti costruire appositamente dai Medici,
una autentica ragnatela che s'intreccia nel famoso
"Pentagono" del Buontalenti.
Il giovane, chiuso in se stesso, il volto scolpito
come uno scoglio dalle onde, aveva seppellito la sorella
nel sepolcreto della chiesa, Padre Saglietto, leggendaria
figura di monaco trinitario, sempre schierato accanto
ai suoi parrocchiani, anche ai "senzadio",
si era opposto alla volontà dei pii frequentatori
della sua parrocchia di seppellire la bellissima Benedetta
nello spoglio "campo dei suicidi" e aveva
concesso questo privilegio alla sventurata fanciulla
buona credente e caritatevole in modo evangelico.
Rimasto solo al mondo, il giovane si era imbarcato
su un legno di Marsiglia e era scomparso. Sei mesi
dopo il corpo di Amedeo, il facoltoso commerciante
che, ingannandola, si era preso sua sorella per poi
abbandonarla vilmente, venne trovato sotto la Voltina
con un lungo coltello piantato in mezzo al cuore.
Era un coltellaccio della Provenza, con una punta
capace di forare la pelle d'un orso e un filo da autentico
rasoio. "Un arma micidiale" - aveva dichiarato
il Delegato di polizia.
Si seppe qualche tempo dopo, ma la nave non si era
registrata e nessuno poté provare niente, anche
se furono in molti a sussurrarlo, che il brigantino
di Marsiglia avesse fatto sosta per un'intera nottata
a Bocca d'Arno, l'equipaggio aveva cenato dal Ghingheri,
nella trattoria di legno costruita su palafitte piantate
in riva al grande fiume, proprio sulla foce, rifugio
di pescatori e contrabbandieri, ma l'oste smentì
recisamente il fatto e del resto, nessuno in Venezia
e in città, aveva visto il "Rosso".
Quindi "si trattava di un evidente abbaglio"
- concluse lo stesso Delegato che dalle autorità
francesi aveva saputo come la nave, nella stessa notte
dell'omicidio, si trovasse all'ancora nel porto di
Bastia, da dove era salpata per Barcellona.
Viaggi in tutti i porti del mondo, esperienze incredibili
e fantastiche, il giovane, intelligenza pronta, agile
e forte, aveva trovato il tempo di imparare a leggere
e a scrivere, apprendere una miriade di lingue e di
dialetti e si era fermato per tre anni nelle terre
algerine, viaggiando sulle roventi sabbie del Sahara
fra predoni berberi e mercanti beduini, raggiungendo
con le loro carovane e nelle loro scorrerie, i monti
dell'Atlante e tutte le oasi fino al verde Niger.
Si era arricchito e quando ritornò in Italia
sbarcando a Genova, invece di recarsi a Livorno proseguì
per Milano. Ad Algeri aveva conosciuto il proprietario
del più importante giornale italiano e durante
il viaggio verso il porto ligure era nata tra i due
una duratura amicizia. Il "Rosso" aveva
parlato delle sue peregrinazioni al potente uomo d'affari
e questi, ascoltando le incredibili avventure narrate
con sciolta parlantina e una vasta conoscenza, era
rimasto affascinato e aveva proposto a quell'uomo
ancora giovane, il volto bello, di cuoio per il sole
assorbito sul mare e nel deserto, di scrivere alcuni
lunghi reportages, iniziando a fare l'inviato all'estero
per il suo giornale. Così il "risi'atore"
veneziano si trovò a viaggiare per paesi lontani,
frequentare uomini di stato, politici, industriali,
inventori, capi di tribù mongole, indiane,
cinesi e africane, ma sopratutto, entrò in
contatto con molteplici culture e tradizioni, arricchendo
ulteriolmente un bagaglio di conoscenze già
vasto.
A Milano si era invaghito, corrisposto, di una nobildonna
di famiglia risorgimentale, si erano sposati, lei
gli aveva dato due figli, ma le peregrinazioni del
marito, le lunghe assenze, l'avevano infine decisa
a chiedere la separazione. La sua ricchezza era tale
da non farle richiedere al "Rosso" nemmeno
una lira per il mantenimento dei suoi figli che tenne
lontani dal padre, per loro sempre più uno
sconosciuto.
Alla fine di un lungo viaggio in Cina e in Mongolia,
il famoso scrittore era ormai giunto al suo trentanovesimo
anno di vita, stanco di viaggiare per tutti i continenti,
aveva persino seguito la folle e stupenda corsa automobilistica
"Parigi - Pechino", si mise a scrivere,
quasi per scherzo un libro di avventure e il successo
fu strepitoso, di conseguenza egli ne scrisse altri
e, in breve, divenne immensamente ricco, di quattrini
e di fama. La ex moglie, il suo tentativo di riconciliarsi
con lei era fallito, dopo alcuni mesi si era trasferita
negli Stati Uniti, dopo aver sposato un ricco industriale
dell'automobile ed i suoi figli erano ormai perduti
nella società dorata degli "States"
A quel punto, evitando le allettanti offerte della
ricca Milano, irrequieto e stanco di vivere la vita
degli opulenti salotti intellettuali di grandi città
europee, decise di ritornare a Livorno, nella sua
Venezia, il che avvenne quando di anni ne aveva quarantatre.
Eppure al "Rosso" non se ne davano più
di una trentina e quel suo volto bruciato dal sole
di cento paesi diversi, sembrava il volto di un fanciullo,
soprattutto per la luce che illuminava i suoi occhi
di ghiaccio.
Acquistò una bella casa al primo piano di un
palazzo signorile sugli Scali delle Ancore e dalle
sue grandi finestre dominava l'intero "fosso
reale" dell'antico quartiere e poteva ammirare
lo spaccato bellissimo delle vetuste case e dei palazzi
seicenteschi. Alla finestra del suo studio, come un
dipinto di grande artista, si mostrava ai suoi occhi
il fosso dominato dalla Chiesa di Santa Caterina dei
Domenicani, il palazzo granducale, detto de il Refugio,
la cui facciata dava sul viale Caprera e la bellezza
di Palazzo Rosciano. Se cambiava direzione al suo
sguardo, il dipinto si trasformava e ad apparire era
la mole familiare della Fortezza Vecchia, sovrastante
l'intero rione con l'Erta degli Arrisi'atori, autentica
terrazza lanciata sul porto e sul quartiere, mentre
davanti a lui si ergeva l'edificio detto de il Paradisino
e poteva vedere anche uno scorcio della chiesa di
"Crocetta", quella cara al suo cuore dove
spesso si recava per i suoi muti colloqui con l'amata
"sorellina". Dalle finestre della casa sentiva
con piacere il brusio della vita operosa dei veneziani,
il chiacchiericcio e le battute dei facchini del porto
e dei navicellai che, seduti sulla spalletta del ponte
sottostante che, dolorosamente, gli ricordava il suicidio
della sorella, aspettavano una chiamata da qualche
banco per recarsi a "fare la giornata".
Ascoltava con sottile piacere l'argentino suono delle
campane, soprattutto quelle di San Ferdinando, la
sua "Crocetta", la chiesa della sua fede
fanciulla, cresciuta all'ombra della torre campanaria
sotto la quale era venuto alla luce e spesso ascoltava
il suono argentino di una canzone cantata da una delle
donne affacciate alle finestre a chiacchierare o stendere
lunghe file di panni ad asciugare. Nelle ore di quiete,
mentre sedeva alla sua scrivania scrivendo qualche
storia, sentiva il fruscio dolce del passaggio di
qualche navicello e non sapeva resistere, affacciandosi
ad ammirare il lento avanzare del grande barcone nero
sulle calme acque del fosso reale, sospinto dalla
pertica usata da un solo uomo che camminava in su
e giù sul passatoio, spingendo quella flessibile,
lunga pertica rotonda, capace di dimostrare la giustezza
della frase di Archimede: "Datemi una leva e
vi solleverò il mondo."
Nel rione nessuno aveva dimenticato il figlio di Alceste
e Filomena, il fratello della sventurata Benedetta
e di quei due ragazzoni, uno morto alle Bocche di
Bonifacio, l'altro a Capo Horn. Il "Rosso"
venne quindi accolto con affetto, rispettato per ciò
che era diventato, ma soprattutto, perché sul
corpo della sorella aveva pianto silenziosamente,
senza mostrare lacrime, mentre il dolore aveva invaso
l'anima sua insieme alla glaciale calma con la quale
aveva preparato la sua vendetta. Impassibile, nessuno
lo aveva sentito profferire minaccia alcuna, chiara
od oscura. Era un veneziano verace lui e aveva agito
con l'intelligenza e la freddezza di un uomo vero
e questo nessuno, nell'antico quartiere, lo aveva
dimenticato.
Quella sera, come dicevamo all'inizio di questa storia,
bastò uno sguardo tra il "Rosso"
e Selica, una splendida donna snella e flessuosa come
un giunco e dal volto che, con quegli occhi profondi
come la notte, i capelli d'ebano e la pelle leggermente
mora, la faceva discendere dal miscuglio di razze
arrivate in questo quartiere nei secoli seguiti alla
promulgazione delle leggi granducali, dette Livornine.
Un amalgama dalla quale era uscito il tipico livornese
verace, nelle cui vene scorreva un misto di sangue
arabo e nordico, orientale e anglosassone.
Fu come una scintilla che incendia una foresta e i
due seppero immediatamente come le loro vite si fossero
intrecciate senza scampo. Era sicuramente amore. Non
il trepido e puro sentimento tante volte cantato nei
libri e in moltissime leggende, no, il loro non era
uno di quei sentimenti fatto di candore e nascosti
tremori, quasi sempre platonici, vissuti su timidi
sguardi e trepidi sospiri. I due, lo seppero subito,
nei loro occhi non c'era niente di poetico, ma l'incontrarsi
di due fuochi violenti e inestinguibili, lo scontro
di due destini, quasi sempre distruttivo.
Si avvinghiarono in un abbraccio frenetico, non appena
la serata ebbe termine, due ore dopo la mezzanotte,
nel portone della casa di lei, in un casamento situato
nella strettissima via delle Acciughe, di fianco al
nobile Palazzo Rosciano. Selica si era avviata, sola,
verso casa; lo Svelto, Remigio Saettini, suo marito,
era uno dei più conosciuti capovoga della città
ed era sceso in mare di buon'ora per raggiungere una
"norvegina", che Pistola (la Venezia è
sempre stata un quartiere dove abbondano i soprannomi),
il suo avvistatore più bravo, gli aveva segnalato.
Quando Selica dette la buonanotte all'ormai assonnata
compagnia, era l'ultima del suo casamento ad andarsene.
Quegli occhi da zingara, neri come un cielo notturno
senza stelle, si erano fermati per un attimo solo
in quelli del "Rosso" e nessuno vide il
messaggio ch'ella gli inviava. Anche lui salutò
e si diresse al ponte, ma, dopo un rapido sguardo
in giro, scantonò furtivamente verso Palazzo
Rosciano, inoltrandosi nel buio della stradina dov'era
la casa di lei.
Dietro il portone semiaperto la donna lo stava aspettando
senza dare un respiro, ma l'uomo aveva occhi di gatto
e, allungando le mani, l'afferrò per le spalle
e se la strinse al petto, poi le schiacciò
le labbra di corallo con le sue e la lingua rapace
iniziò a frugarle dentro la bocca che sembrava
un forno, mentre le mani, come artigli, afferrarono
il petto di lei, strinsero quei seni soffici e rotondi,
eppure duri come il granito, poi calarono sul grembo
e le dita s'introdussero nella rotondità delle
sue cosce, inoltrandosi nel soffice vello che le adornava,
accarezzando le delicate membra frementi tra l'inguine
e il pube scoperto, perché lei, nell'attesa,
si era strappata di dosso le candide mutande. Lo mordeva
come una cagna in calore, mentre le dita del "Rosso"
la penetravano, bagnandosi. Poi si ritrassero per
alzare la triplice barriera dei gonnelloni. Egli si
sbottonò la patta dei calzoni e infilò
la donna, come quando si immerge lo spiedo nella morbida
carne della cerbiatta per rosolarla lentamente tra
le fiamme. Soffocate le grida, i due corpi vennero
come colpiti dalla febbre terzana; lui sollevò
leggermente Selica e spinse la sua schiena delicata
e forte contro il muro. Lei circondò i fianchi
di lui con le sue snelle gambe per farsi penetrare
più a fondo, in uno spasimo di tale intensità
capace, sicuramente, di scaraventarli in un'altra
dimensione. Quando l'estasi esplose nelle loro membra
e il cervello delirando cadde in una specie di beatitudine
ultraterrena mai provata, i due si accasciarono per
terra. Erano stremati, l'uno sopra l'altra, abbracciati
come due esseri alla deriva, naufraghi in cerca di
una spiaggia sicura.
Il silenzio della notte profonda era rotto soltanto
dall'ansito dei loro petti, mentre il cuore di entrambi
sembrava battere i colpi del cannone di mezzogiorno
in Fortezza Nuova e per un momento pensarono a come
quell' affanno febbrile potesse svegliare tutto il
casamento.
Il Rosso continuò ad accarezzare lentamente,
con dolcezza, la donna discinta e ancora fremente;
i baci persero la dolcezza dei primi istanti seguiti
alla vertigine e tornarono a farsi golosi, le bocche,
due ventose. Il Rosso la penetrò di nuovo con
una furia che sembrava volesse distruggerla, ma Selica
rispondeva quasi con furore e le sue reni sembravano
di ferro, l'opposto del suo grembo, aperto come un
fiore al bacio della rugiada e del primo sole. Il
corpo bellissimo e fragile di lei si offriva all'uomo
entrato come il fulmine nella sua esistenza, rispondendo
col sangue a chi succhiava tutta la sua linfa vitale,
mettendole un fuoco ardente nel corpo e nei sensi
scatenati, mentre una sete senza fine, mai estinta
nei giorni che seguirono, saliva dalle sue vene e
la rendeva preda di una frenesia incontrollabile.
Al mattino, quando il sole si era levato da poco a
indorare i tetti e faceva brillare l'acqua dei Fossi
Medicei intrecciati in un abbraccio eterno con le
case di tutto il quartiere, il "Rosso" si
mise a scrivere quel saggio sulle usanze mercantili
dei popoli abitanti le immense steppe intorno a Samarcanda,
una città stupenda, misteriosa, come avvolta
nelle spire di un tempo che non voleva trascorrere,
da lui visitata due anni prima come inviato del giornale
di Milano.
Il suo pensiero non poteva, però, staccarsi
dall'amplesso violento della notte, dalla passione
incredibile scatenata da quella donna stupenda nel
suo cuore, ormai chiuso, così credeva, ad un
sentimento come quello che l'aveva spinto tra le braccia
di lei. Voleva stringere ancora quel bellissimo corpo
animale, pieno di fuoco. Il ricordo degli occhi di
Selica, quella bocca vermiglia, la durezza cedevole
dei seni, con le punte dei capezzoli erette, quasi
piccoli falli, il pube stretto, da vergine e cedevole
come la terra più fertile alla lama dell'aratro,
ma capace di stringere lui in una morsa incandescente,
lo eccitava ancora ed egli, per la prima volta nella
sua vita, si accorse di amare con una profondità
senza eguali il corpo e l'anima di Selica.
Dal canto suo, la donna, non aveva potuto dormire
nemmeno un attimo. Tremava ancora, sembrava una canna
esposta al vento di un tempestoso altopiano per la
violenza e l'estasi che l'avevano investita come una
mandria di cavalli imbizzarriti. Lo Svelto era rientrato
all'alba, contento per aver conquistato una buona
nave, stanco ma pieno di desiderio per questa sua
donna un po' misteriosa eppure tranquilla. L'aveva
abbrancata ed era entrato in lei con quel suo pene
enorme dal quale ella non aveva mai ricevuto piacere.
Quell'uomo primitivo, forte e snello, dalle movenze
feline, l'aveva attirata nella sua rete (oppure era
stata lei, con quel suo civettare pacato, quasi nascosto
a farlo cadere nelle sue braccia?), ma sin dal primo
amplesso Selica si era accorta come per lui contasse
solo il proprio piacere, il soddisfacimento animale
dei suoi sensi; lei era soltanto una fonte di godimento
egoistico, individuale.
Col "Rosso" la fusione era stata istantanea.
Il fuoco liquido di lei aveva incendiato la furia
incandescente di quell'uomo solitario che da quando
era tornato nella sua Venezia non aveva degnato di
uno sguardo interessato alcuna donna. Ella ne era
sicura, lo aveva stregato e lui, dal canto suo, le
aveva stretto il cuore con un laccio mortale. Il pensiero
di riaverlo tra le braccia riempiva la sua mente di
un'ansia urgente e quando chiudeva gli occhi, subito
se lo vedeva davanti, lo sentiva dentro di se, come
quella notte nel buio del portone, dove per la prima
volta nella sua giovane vita, aveva provato l'estasi
di un orgasmo che l'aveva scagliata in una dimensione
semplicemente fantastica.
Era stato un subitaneo amore o soltanto un'attrazione
dei sensi che aveva rotto tutte le dighe di una moralità
e di una serietà di comportamento da sempre
insite in Selica? Un modo di essere e di agire imposto
a se stessa da una ferrea volontà alla quale
non era mai venuta meno, da quando Padre Saglietto,
fresco parroco di Crocetta, aveva benedetto le sue
nozze. Si, perché lei aveva sempre avuto il
sangue inquieto e i suoi pensieri correvano incontro
ai sogni, come se la vita si trovasse nei luoghi incantati
visitati ogni notte, mentre dormiva. Lo Svelto l'aveva
trovata intatta, ma Selica aveva sempre saputo, con
la capacità di una veggente, come si sarebbe
librata nei cieli della bellezza quando fosse scoccata
la prima scintilla dell'incendio che un uomo le avesse
appiccato addosso. Il suo corpo e la sua anima l'avrebbero
trasformata in puttana e a lui, all'uomo da sempre
atteso, avrebbe concesso tutte le perversioni di cui
si sentiva capace, ma anche un amore assoluto ed eterno,
dolce e tenero insieme.
Quando colui che aveva sposato si rialzò da
lei per addormentarsi come un tasso in letargo, Selica
lavò via da se ogni traccia di quell'amplesso
che le dava una terribile nausea, quindi uscì
di casa e si diresse al Porticciolo. Le finestre della
casa del Rosso erano spalancate, ma di lui nemmeno
l'ombra. Sull'angolo della piazza Vittorio Emanuele
II lo vide e il cuore le diede un balzo dentro, rimbombando
come un tamburo impazzito. Lui si stava avvicinando
a grandi passi, ma non l'aveva vista. Avanzava sullo
stretto marciapiede col Telegrafo spalancato e un
gran fascio di giornali sotto il braccio. Era assorto
nella lettura, poi alzò lo sguardo, quasi distrattamente,
ma quando mise a fuoco la sua immagine, si fermò
come impietrito. Si arrestò in attesa e a lei,
mentre le gambe le si facevano molli, parve volesse
penetrarla con lo sguardo, cercando contemporaneamente
una qualche risposta nell'anima sua. Confusa, con
un tumulto di sentimenti che l'accecava, pensò
con terrore come tutti i passanti dovessero essersi
accolti di quanto le passava nella mente e tambureggiava
nel suo cuore. Camminava lentamente e nonostante l'ampio
gonnellone, lui poteva vedere chiaramente, anche chiudendo
gli occhi, la movenza conturbante, felina, dei suoi
fianchi e immaginare il dimenarsi stupendo di quei
glutei bellissimi, desiderabili.
Un cenno di saluto e, via, ognuno per la sua strada,
ma nella luce dei loro occhi, in un attimo solo, essi
si erano detti tutto, meglio e più di quanto
avrebbero potuto comunicarsi in un lungo colloquio.
Amore e passione, desiderio di stringersi e di annegare
l'uno nell'altra. Mille parole inespresse, dalla chiarezza
estrema. Un sentimento profondo, insoddisfatto, forsennato,
legava ormai le loro vite e la sete di fondersi, violenta
come una febbre, i due amanti lo sapevano ormai, non
si sarebbe mai più acquietata.
Da quella notte erano trascorsi venti interminabili
giorni e la loro smania non aveva avuto soste. Era
cresciuta come l'onda di piena di un alluvione, pronta
a scatenarsi con la furia inarrestabile della natura.
I rapporti tra Selica e lo Svelto erano tesi: i due
sembravano corde di violino. Lui non riusciva a capire
l'irrequieto aggirarsi per la casa di una Selica stralunata.
L'aveva sdraiata tre volte sul letto e una sul tavolo
di cucina e come sempre ne aveva goduto il corpo,
ma si sentiva inquieto, come se avvertisse un qualche
evento incombente. Non si era però accorto
della rigidità di lei mentre la possedeva e
mai avrebbe pensato come nella vita di quella sua
donna bellissima e ombrosa fosse entrato un altro
uomo.
Quel giorno le nuvole correvano sul cielo della Fortezza
Vecchia e sembravano incombere come neri giganti sui
campanili delle chiese e sui tetti delle case chiuse
nell'intrico dei fossi. L'atmosfera era carica di
elettricità. Giganteschi nembi, scuri come
la notte, si accavallavano l'uno sull'altro coprendo
la città di uno spesso manto di pece, carico
di pioggia, solcato da un violento lampeggiare, mentre
il rombo del tuono annunciava l'arrivo di un terribile
uragano. Di lì a poco l'acquazzone si scatenò
a valanga, portato sulle ali di un vento improvviso
e furioso che investiva fischiando i palazzi del quartiere,
infilandosi di punta, come un cavallo imbizzarrito,
nelle strade. Uno dei più tremendi nubifragi
mai registrati, mentre le saette solcavano il cielo
lacerandone il tessuto e illuminando di blu luminoso,
misto ad un bianco accecante, anche gli angoli più
nascosti dell'antico quartiere. Il Rosso aveva assicurato
le persiane, ma le aveva lasciate aperte, trattenendosi
alla finestra ammaliato dal rincorrersi nel cielo
nero come lo spazio profondo della miriade di fulmini
che squarciavano l'improvvisa oscurità come
se in alto una tela tessuta da giganti si lacerasse
improvvisamente. Mentre ammirava la tempesta e il
violetto, livido balenare delle folgori, gli parve
di sentire un frenetico bussare alla porta e quando
aprì, Selica, bagnata come un pulcino, gli
si gettò contro il petto. Non ci furono baci,
ma un frenetico mordersi, lacerarsi la pelle con dita
simili agli artigli di una tigre affamata piombata
sulla preda, percuotersi, quasi, spinti dal desiderio
covato per giorni ed esploso come il temporale abbattutosi
sulla città. La spogliò con violenza,
la gettò sul letto, si spogliò a sua
volta strappandosi i vestiti da dosso, sembrava impazzito
e lei pure. Asciugò con il calore del suo il
corpo bagnato di lei ed entrò nel grembo aperto
della donna con la violenza di quel vento impetuoso
che galoppava per le strade, si arrampicava sui muri
delle case e volava sui tetti. Il mondo sembrava all'improvviso
scomparso, infinitamente lontano dai due amanti chiusi
da un qualche sortilegio, in una inaccessibile torre
di cristallo e l'impeto del "Rosso" trovò
pane per i suoi denti, perché Selica rispondeva
ai suoi colpi con la libidine di una furia. Dopo il
primo amplesso fu lei a coprire col suo corpo quello
dell'amato. Piccoli baci, una raffica interminabile,
golosa: sulla fronte, sugli occhi, su tutto il volto
e la sua lingua lappò le labbra di lui socchiuse,
le forzò, s'inoltrò nella chiostra dei
denti, succhiò voracemente e uscì, cominciando
a percorrere il fascio dei muscoli duri del collo
di quel corpo possente con le umide, tumide, labbra.
Poi fu sul suo petto, mordicchiando con intensità
i piccoli capezzoli del "Rosso" ormai gemente,
lo morse quel seno piatto d'uomo, poi discese lentamente.
Sembrava una gatta impegnata a lappare il latte di
una ciotola e dopo aver passato la lingua sul solco
dell'inguine fu sull'oggetto del suo desiderio, duro
e lucente, come fosse di rame e lo ingoiò,
girandosi con felina agilità e schiacciando
con il suo pube che brillava di umori il volto congestionato
dell'amante.
Anche la lingua del Rosso si mosse, si aprì
lentamente una strada tra le labbra profumate e penetrò
fin dov'era possibile, baciò e morse la clitoride,
divorò quella splendida donna sussultante come
una barca sollevata dalle onde del mare in tempesta
e mentre il suo seme inondava la bocca di Selica,
lui credette di sprofondare nel magma incandescente
di un vulcano, bruciante, ma profumato come il giardino
dell'Eden.
Coperti da un velo lucente di sudore i due amanti
giacquero spossati, accarezzandosi lentamente, con
infinita dolcezza.
"Ti amo, Selica. Non credevo fosse possibile
un sentimento come questo. Si fonde con una passione
irrefrenabile, peccaminosa, quasi sacrilega, eppure
tanto bella e candida. Sembra una bestemmia, dopo
la frenesia che ha infranto barriere e pudori, eppure
il mio amore per te possiede qualcosa di extraterreno,
di spirituale".
"Anch'io provo queste sensazioni, mio dolcissimo
uomo di ferro. Non mi sento sporca per quello che
facciamo, mentre provo offesa quando lo Svelto mi
prende come fossi cosa sua. Solo allora ho l'impressione
di essere una puttana, non quando faccio l'amore con
te. Con te e per te potrei morire, ne sono certa.
E se divento sfrenata e tiro fuori quanto di peggio
una donna possa esprimere con l'amante, è perché
il mio amore, credimi, è più forte dei
principi ed io lo sento puro e pulito più di
ogni altra cosa al mondo. Me lo sento dentro: questo
è l'amore vero, autentico, meraviglioso, quello
che a una donna si presenta soltanto una sola volta
nella vita, se è fortunata. L'irrefrenabile
desiderio di fondermi con te mi spinge a travalicare
qualsiasi forma di pudore, una spinta cui non so resistere,
forse la voglia matta di annullarmi nell'anima tua
e nel tuo corpo".
Tra i due era però il silenzio dei pensieri
a prevalere. Ad essi bastava guardarsi, toccarsi,
trasmettersi in questo modo mille sensazioni. Solo
specchiandosi negli occhi l'uno dell'altro, riuscivano
a comunicare, a dirsi tutto e, forse, nel tacito colloquio
degli sguardi, di questo amore scoprivano l'unicità,
la trascendenza. Quanto legava le loro esistenze era
sicuramente un sentimento capace di lottare contro
il mondo, anche a rischio della propria vita, senza
valore se dovevano essere separati.
Il temporale continuava ad infuriare, sembrava volesse
proteggere e prolungare questo incontro, in cui l'intrecciarsi
del muto colloquio tra i due amanti pareva non dovesse
finire mai. Le mani carezzevoli somigliavano alle
bacchette di un direttore d'orchestra impegnato con
il suo genio a condurre i suoi musicisti nelle spirali
dolci e infinite della musica. Il contatto dei loro
corpi dava nuovo respiro al desiderio, quasi un tormento
che tornava ad ardere con rinnovato vigore nelle loro
vene. I baci convulsi che si scambiavano sembravano
irrorare l'anima di fuoco liquido, un ansito affannoso
saliva su nei petti fusi, quasi, nell'abbraccio. Una
smania di distruzione obnubilava le menti, sentivano
la voglia di farsi male per estinguere quell'arsura
dannata. Selica era stata morsa a sangue sulle labbra;
i seni tumefatti, pieni di lividi bluastri. Il "Rosso"
entrò di nuovo in lei con violenza, il suo
corpo sussultava come colpito da un raptus. La donna
stupenda ebbe un gemito di dolore. "Sei stretta
come una vergine" - mormorava lui tra un colpo
e l'altro dei reni. Poi il corpo flessuoso di Selica
sgusciò dall'abbraccio. "Ora ti prendo
io" - disse sommessamente e si mise a sedere
infiggendo profondamente nel proprio grembo il pene
di lui, per dare inizio ad una danza lasciva, una
cavalcata capace di fare impazzire tutti e due. la
sussultante frenesia di lei, il pene rinserrato nelle
misteriose profondità del suo corpo, poi il
"Rosso" la respinse afferrandola alla vita
e la depose sotto di se con la faccia affondata sul
cuscino. Si chinò sullo spettacolo dei glutei
di lei, levigati e sodi, due forme così perfette
da farlo impazzire di smania rabbiosa. Le apri come
un frutto maturo e vi tuffò il suo viso, andando
a lambire con la lingua il minuscolo triangolo di
pelle tra le labbra della vagina e il bruno, fremente,
minuscolo cerchio aperto sul mistero di Selica, ormai
in deliquio. Trasformata in un'ossessa ella urlava
parole incoerenti che raggiunsero il diapason quando
il Rosso la penetrò dolcemente, forzando solo
leggermente quel vallo meraviglioso. Fu una irreale
cavalcata in una infinita libidine e il desiderio
di entrambi, alla fine, eruppe come una valanga travolgendoli
senza scampo.
Intanto il temporale sembrava placarsi, ma urlava
ancora sui tetti, nelle strade della Venezia e sull'intera
città. Un fortunale come non se ne ricordavano
molti; forse la natura si era scatenata per cantare
la loro violenta storia d'amore e di passione.
"Ti amo da morire" - "Con te per sempre"
- Ma ancora il Rosso e Selica non si ponevano il problema
di un futuro insieme, forse consapevoli di un destino
segnato da sempre. Ben presto il fato inesorabile
si sarebbe fatto vivo, presentando loro il conto di
questa immensa, non certamente comune felicità.
"Noi rimarremo uniti, su questo puoi giurarci.
Sembra impossibile, ma lo so con certezza. Siamo due
esseri segnati dal Fato, non ci separeremo mai, nemmeno
dopo la morte, perché siamo speciali e il nostro
destino non finirà qui su questo mondo, ne
sono certa".
Selica aveva aperto l'anima sua al mistero di ancestrali
magie e sentiva diventare certezza questo fantasticare
cui il "Rosso" prestava orecchio, credendole.
Forse, egli, nei suoi innumerevoli viaggi, nel visitare
paesi sconosciuti, aveva appreso misteri e leggende
a lei estranee, ma nello stesso tempo conosciute in
forma semantica diversa e per questo credeva al vaneggiare
della donna. Anche lui, in fondo, era un uomo diverso,
come non fosse di questa terra, non appartenesse alla
specie umana e sentiva intorno a loro una presenza
ignota, forse un cerchio di presenze sovrumane venute
a proteggere dal mondo materiale l'incanto di quell'amore
reale, corrotto per le leggi umane, eppure incorruttibile
per l'eternità.
Nei giorni successivi i due amanti trovarono sempre
il modo d'incontrarsi e ogni volta si prendevano con
furia insaziabile e inusuale passione. Avevano fatto
l'amore dietro le mura della chiesetta antica, in
pieno viale Caprera, la strada nuova costruita sull'antico
corso d'acqua. Si erano incontrati subito dopo l'imbrunire,
tutti i portoni del rione erano diventati la loro
alcova e una sera si erano fusi freneticamente sotto
la Voltina, simili a due ossessi, posseduti da uno
spirito incapace di avere requie. Erano queste furibonde
battaglie d'amore a lasciarli prostrati, senza fiato,
come se avessero fatto l'amore per una intera notte.
Da qualche tempo erano i navicelli ad ospitare i loro
baci, i sospiri e le parole d'amore, l'amplesso sempre
infuocato dei loro corpi. Accadeva nelle sere in cui
lo Svelto era in mare. Seppure potessero, in quelle
occasioni, amarsi nella casa di lui, chissà
perché, preferivano fondersi sotto l'incantata
luce delle stelle, sovrastati dall'immensità
dell'universo. E fu uno di questi incontri a perdere
i due amanti, così presi dalla profondità
di quella magica pazzia, ancora così forte
da impedire loro qualsiasi progetto per il futuro.
Toccò a Pistola scoprirli. Aveva bevuto come
una spugna e si era gettato sul fondo di un navicello
enorme, ancorato sotto il Paradisino per addormentarsi
come un sasso. Era contento per aver avvistato una
grande nave e permesso alla carovana del suo padrone
di correre incontro alla scura sagoma profilatasi
all'orizzonte e che nella notte di luna si distingueva
ormai benissimo.
La luna, nel suo splendore, aveva già superato
lo Zenith e sembrava appesa ai merli del Mastio di
Matilde, quando il vecchio avvistatore fu svegliato
da alcuni gemiti soffocati. Scosso di soprassalto
dal suo sonno provocato dai fumi dell'alcool, lì
per lì non seppe rendersi conto di quanto stava
accadendo vicinissimo al suo vecchio corpo. Non sapendo
come comportarsi e presagendo un qualche pericolo,
era rimasto immobile, cercando di identificare la
direzione del flebile lamento, di cui, però,
dopo un solo momento d'incertezza, aveva compreso
la natura, mentre un guizzo d'allegria sembrò
ridargli lucidità. Schiarita la vista, la luna
lo aiutò ad intravedere i due corpi avvinti.
Un raggio argenteo aveva accarezzato per un istante
il corpo della donna, le lunghe gambe ben tornite,
i fianchi nudi, flessuosi come giunchi, due seni belli
come i più bei frutti di un albero del Paradiso.
La splendida donna si era voltata un attimo solo e
Pistola, allibito e sconvolto, aveva scorto un volto
bellissimo, sudato, la bocca semiaperta, ansante,
circondato da una cornice nera d'ebano di capelli
scarmigliati. Si, era Selica. Un trasalimento improvviso,
rabbia e dispiacere, perché lui sapeva come
lo Svelto non fosse a casa, ma si trovasse sulla sua
barca che stava conducendo verso le secche della Meloria,
incontro a quella nave con la quale avrebbe aggiunto
altri allori alla leggenda della sua ciurma di risi'atori.
Quindi Selica era distesa sotto il corpo di un uomo
che non era quello del suo amico .
"Selica! - pensò - Ma com'è possibile?
Una donna tanto perbene, rispettata, dolce e gentile,
eppure tanto fiera". - Invece il suo volto da
dea sembrava irriconoscibile, anche se bellissimo,
come fosse stato colpito da un raptus. Il corpo di
lei oscillava sul grembo di un uomo ancora nascosto
tra le pieghe di un ampio mantello.
Una rabbia sorda e una gran pena per l'amico in mare
nell'animo di Pistola. Era vecchio, sapeva come queste
cose accadano spesso, aveva compassione della donna,
ma in lui la fedeltà e l'amicizia per lo Svelto,
ingiustamente tradito, era più forte e prevalse
subito. Una rabbia sorda, un odio feroce contro i
due amanti traditori.
Poi riconobbe anche l'uomo: "Il "Rosso"?
Il tranquillo scrittore ormai nuovamente approdato
nel suo rione, rispettato e amato da tutti, contraccambiava
così, con un nero, bieco, vile, tradimento,
i suoi amici, la sua gente gelosa dell'onore, rubando
le donne altrui, sapendo bene come in Venezia queste
fossero intoccabili? Lui, proprio lui che in altri
tempi…."
Se ne andò quatto, quatto, Pistola. Lasciò
soli i due amanti rapiti da un'altra dimensione, presi
dalla frenesia dell'amplesso che non permise loro,
isolati dal mondo, chiusi in un'estasi quasi ultraterrena,
di accorgersi di quella nefasta presenza. Erano così
presi l'uno dall'altra da lasciare fuori il mondo
che per essi non esisteva più, almeno quella
notte.
Il giorno aveva portato un libeccio tirato che s'ingolfava
nelle strade del rione e strappava anche qualche rintocco
alla campana piccola di Crocetta. Nel vento di marzo
il bronzetto in cima al campanile sembrava suonasse
a morto.
La voce si sparse in un lampo, con il clamore degli
avvenimenti che non saranno mai dimenticati e diventeranno
leggenda tra la gente.
"Sulla spiaggetta dei Calafati ci sono due morti.
Una è Selica, l'altro corpo vicino a lei sembra
quello del "Rosso", lo hanno preso a tradimento."
Si accalcava la gente intorno al cantierino dove si
costruivano e riparavano i neri navicelli. Solo gli
uomini d'eccellenza nel rione, assieme a Padre Saglietto,
circondavano i due corpi senza vita. Esangue, Selica,
ma bellissima ancora, con intorno alle labbra un sorriso
accennato e gli occhi di giaietto spalancati a guardare
il cielo e l'eternità insondabile del mistero.
La sua mano diafana era strettamente intrecciata a
quella del Rosso, anche lui con gli occhi spalancati,
ma stranamente sereni, limpidi come fossero ancora
vivi. Un fiore rosso sul petto di lui, colpito alle
spalle da un lungo, acuminato coltello che gli aveva
trapassato il torace, una sottile cordicella di velluto
verde attorno al collo esile di lei.
Assieme al Delegato di Polizia arrivò anche
lo Svelto, accompagnato, quasi circondato dalla sua
ciurma. Tutti gli occhi si volsero al suo volto. Chiuso,
impassibile, sembrava quasi non vedesse i due corpi.
L'uomo della legge aveva già verificato come
il capovoga fosse stato occupato tutta la notte a
guidare una nave tra le secche, verso l'entrata sicura
del porto. Egli con il duplice delitto non c'entrava,
anche se il baffuto funzionario era certo fosse stato
proprio il marito tradito ad ucciderli con le sue
mani dure come l'acciaio. Strano, però - pensava
il Delegato Formigli, anche il "Rosso" era
un uomo forte ed esperto nella lotta, in ogni tipo
di lotta. Perché non aveva opposto resistenza
alcuna? Mah, chissà perché? Ah, dimenticavo,
lui lo ha colpito a tradimento, un colpo al cuore
dal polmone, probabilmente quando era ancora abbracciato
alla donna. Sennò chissà come sarebbe
andata a finire… Non credevo che lo Svelto fosse
un vigliacco e questo atto, la mancanza di quel coraggio
capace di fargli affrontare apertamente l'uomo che
gli aveva rubato la donna e l'onore, i veneziani gliela
faranno pagare. È certo."
L'uomo non volle più vedere la moglie, si allontanò
dal corpo di Selica senza nemmeno guardarla e s'intrattenne
con i suoi. Nessuno dei veneziani presenti gli fece
un solo cenno, troppo il rispetto per lui, tradito
e la compassione, forse anche il rimpianto, per quei
due poveri morti, intorno ai quali già la gente
intesseva la tela di un racconto da tramandarsi nei
giorni e negli anni a venire, trasformandolo, poco
a poco, in leggenda, rendendo così immortali
gli sfortunati amanti.
Padre Saglietto rifiutò deciso la richiesta
di qualche amico dello Svelto, perché ai due
innamorati fosse negata la benedizione in chiesa:
"Dio solo ha il diritto di giudicare, non noi
con le nostre passioni, con i nostri giudizi, con
gli errori compiuti ogni giorno" - affermò
con voce che sembrava scolpisse parole sulla roccia.
La sua autorità era tale da non permettere
contestazione alcuna e nessuno, infatti, si sognò
di avanzare anche la pur minima critica per l'indulgenza
mostrata a chi peccatore era sicuramente.
Alla funzione, nonostante ci si potesse inimicare
lo Svelto, trasferitosi per qualche tempo in un altro
rione, c'erano tutti i veneziani e anche gente di
altre zone della città. Si sa, la pietà
spesso s'intreccia coi fatti clamorosi e i pettegolezzi
volavano da un uscio all'altro, librandosi tra finestre
e balconi. Gli innamorati, gli amori infelici e le
tragedie che ne conseguono, inducono sempre il cuore
della gente semplice al rispetto e al dispiacere.
Al funerale erano presenti molti uomini della cultura
nazionale, giornalisti, anche alcuni politici di sinistra.
Del resto l'uomo non era soltanto un famoso inviato,
ma i suoi libri venivano letti da milioni di persone
e la stampa nazionale si era gettata a corpo morto
sull'avvenimento.
Le due bare, circondate dagli incappucciati e dalla
gente assorta nella preghiera o impegnata a "pillaccherare",
ricevettero l'incenso e l'acqua benedetta. Il Dies
Irae si levò solenne dal coro dei frati e delle
suore del Paradisino; ancora una volta si saldava
quel loro legame con il popolo, anche con gli atei
più accaniti, i repubblicani, che in Venezia
avevano l'abitudine di consigliarsi su tutto con Padre
Saglietto. Come se non fosse un prete. Con essi, qualcuno
che aveva confidenza con il trascendente, vide gli
Antenati, i veneziani di sempre, gli Sgarallino, i
Dodoli e tutti gli altri, seppure fossero scomparsi
da tempo, si assiepavano tra le ombre della chiesa
per assistere alla funzione e rendere omaggio al "Rosso",
da sempre uno di loro, anarco socialista, ammiratore
di Garibaldi e Mazzini, come spesso aveva scritto
sul più importante giornale dell'epoca, asserendo
che se fosse stato anche un giovinetto negli anni
gloriosi del Risorgimento vittorioso, avrebbe combattuto
al loro fianco.
Selica e il Rosso vennero seppelliti in una porzione
di terreno sotto l'Erta degli Arrisi'atori, all'interno
delle mura distese protettivamente intorno al convento
dei Padri Trinitari. Il clamore finì come sempre
accade, ma non la memoria popolare. Nelle sere di
vento, in quelle d'inverno e quando in cielo brillano
le stelle del plenilunio d'agosto, sono molti, anche
oggi, i veneziani che giurano di avere visto i due
amanti affacciarsi sul ponte, di fronte alla mole
antica della Fortezza. Abbracciati a guardare ancora
con tenerezza e amore quello strano quartiere che,
distrutto dalla guerra, è ancora oggi colmo
di magia. A distanza di un secolo, attraversato dai
canali, è ritornato a vivere come rivive la
Fenice. Un quartiere che per i suoi figli e i figli
dei figli, rimarrà sempre il più bello,
un angolo incantato di questo mondo in cui l'uomo
e i suoi sogni rischiano ormai di rimanere senz'anima.
Cinque anni lontano dal rione, poi lo Svelto era ritornato
dopo un nuovo matrimonio, ma, in breve, si era deciso
a lasciare definitivamente la Venezia, continuamente
turbato dal ricordo dei due sventurati amanti da lui
sorpresi nell'amplesso, ma soprattutto spinto dall'atteggiamento
riservato, quasi ostile dei veneziani nei suoi confronti.
Questa gente povera, in lotta permanente per vivere,
ma fiera, generosa e leale, non aveva dimenticato
che il Rosso era stato colpito alle spalle e che la
splendida donna, invece di essere stata trafitta da
una coltellata al cuore, era stata vigliaccamente
strangolata. Tutti gli abitanti di quel rione unico,
avevano visto chiaramente nella loro mente la tragedia
svoltasi nel buio della notte sulla sabbia del cantierino
dove lavoravano i Calafati, sempre intriso dal forte
odore della pece, così come avevano visto il
coltellaccio dello Svelto saettare nell'aria senza
un barbaglio schiantandosi sulla schiena del Rosso
immerso nell'estasi dell'amore. Selica balzata in
piedi, seminuda e scarmigliata, non aveva palesato
paura alcuna; si era soltanto coperta la bocca con
le mani per soffocare il raccapriccio e non palesare
il dolore tremendo che aveva investito l'anima sua
nell'assistere alla morte del suo amante. Era un estremo
tentativo di far capire all'uomo che per il mondo
era il suo sposo, come la Signora in nero non contasse
niente per lei, rispetto all'amore vissuto con pienezza
insieme a colui che era stato vilmente assassinato.
Si era avanzata impavida e fiera verso il suo boia,
gli occhi da saracena colmi di profondo disprezzo,
porgendo il collo alla sottile cordicella impugnata
dall'uomo. Uno strappo secco e la bellissima donna
era caduta in ginocchio, ma nel suo ultimo barlume
di vita, con uno sforzo sovrumano si era avvicinata
all'amato sovra ogni altra cosa al mondo, afferrandogli
la mano, prima di lasciare libero il suo spirito.
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