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La lettura è consigliata ad un pubblico adulto








Rione Venezia



Ponte Santa Trinità


Ponte Santa Trinità



Ponte Santa Trinità



Viale Caprera



Erta degli Arri'siatori



Viale Caprera



Viale Caprera



Viale Caprera



Viale Caprera



I barconi sugli scali delle ancore



Scali delle ancore



Chiesa Santa Caterina e Domenicani




Fortezza Vecchia



Fortezza Vecchia



Fortezza Vecchia



Scalo Regio in Fortezza Vecchia



Chiesa Santa Caterina



Ponte dei Domenicani



Chiesa San Ferdinando o di Crocetta


Piazza Vittorio Emanuele
attuale Piazza Grande


Piazza Vittorio Emanuele
attuale Piazza Grande



La prima pagina del primo numero
de Il Telegrafo di Livorno


Piazza Carlo Alberto
attuale Piazza della Repubblica

La sede de Il Telegrafo
in Piazza Carlo Alberto
attuale Piazza della Repubblica








Ponte della Venezia



"Il Paradisino" in Venezia



I barconi lungo i navicelli



Il Mastio di Matilde



Otello Chelli:
settantasei anni, livornese verace, nato nel quartiere della Venezia, il più caratteristico della città, mai frequentata una scuola, quindi autodidatta, giornalista pubblicista, ha scritto alcuni libri; Livorno, il Mediterraneo in cucina (prima edizione 1989, 40.000 copie), La storia del Ponce 1995), La storia del cacciucco (1996), una edizione delle due storie nel 1999. Nel 1998 il romanzo La stirpe di Morgiano, nel 2002 Il Moletto - Una storia di mare e di pesca - stesso anno: Livorno, la ricca Città delle Nazioni (35.000 copie)
Consigliere comunale eletto quale indipendente nelle liste di Rifondazione, ex sindacalista, ex dirigente del Pci, radiato dopo vent'anni, nel 1969 per la sua appartenenza alla rivista il manifesto, pubblica raramente se non su richiesta, perché non intende "raccomandarsi" alle case editrici. Ha spedito questo racconto breve che fa parte di una "collana" di 50 racconti che tiene nel suo computer con una ventina di romanzi che consegnerà ai propri figli e nipoti quale unico lascito, di carattere intellettuale, non possedendo nemmeno la casa dove abita.

La Redazione di Livorno Magazine
ringrazia l'amico Otello Chelli
della gentile concessione
a pubblicare questo suo racconto
carico di emozione e sentimenti
di ogni genere, con un'ambientazione,
quasi surreale, memoria storica
della Città di Livorno


IL ROSSO E SELICA

Era bastato uno sguardo tra il "Rosso" e Selica, durante una delle tradizionali e numerose cene collettive che nelle sere d'estate si consumavano sui larghi marciapiedi del viale Caprera, mettendo assieme tutto il pescato di una giornata, altri alimenti e gli indispensabili fiaschi di vino rosso del Chianti, contenuti nelle madie delle famiglie, più numerosi dei fili di pane. Si trascorreva una serata in allegria, mangiando, bevendo, cantando sfottenti stornelli, romanze d'amore e famose canzoni sovversive, il rione lo era da sempre, la gente aveva nell'anima sentimenti carbonari prima dell'Unità e nikilsocialisti subito dopo, soprattutto quando Vittorio Emanuele II aveva cancellato lo status di "porto franco" alla città più garibaldina d'Italia insieme a Brescia e Bergamo, gettando a spasso centinaia di facchini del porto, navicellai e barrocciai. In quegli anni era ancora attiva la "Mano Nera", nata fra i veneziani per vendicare con il coltello i torti subiti dalla loro gente. Se la sera era umida si accendeva un bel fuoco e ci si sedeva tutti attorno consumando la cena, "buttando a pagliolo" i fiaschi , mentre il Topo, già alticcio, un bicchiere pieno a metà posato ai suoi piedi, dava il via alla festa in qualità di mago della chitarra, nonostante non conoscesse una nota musicale. Con le sue arie faceva cantare la notte e rendeva più brillanti le stelle, aiutato dalla voce di Renata, popolana tipica, tonalità d'angelo che, se educata e lanciata sui palcoscenici, sarebbe diventata più celebre delle più acclamate e corteggiate stelle del melodramma.
Il "Rosso" era una figura bizzarra, fuori fase in un quartiere tipico e popolare come quello della Venezia Nuova, anche se era nato in una delle antiche case della Tura, la zona che dalla chiesa di Crocetta si proiettava fino al Ponte di Santa Trinita, accucciato sotto la mole corrusca della Fortezza Vecchia. Tornato a casa dopo anni e anni di avventurose peregrinazioni, durante le quali aveva fatto fortuna, nel suo rione ritrovava ogni giorno i ricordi di una fanciullezza dura, ma allegra, indimenticabile. Giornalista e scrittore di larga fama, ad ogni uscita di un suo libro veniva osannato dalla critica. Eppure era uno di loro, nato fra questa gente povera e ostinata, generosa e impulsiva, discendente di una delle famiglie "storiche" di questo rione autentico angiporto, abitato da gente che all'orgoglio delle proprie idee, univa grande fierezza ed era facile alla zuffa, al coltello e al revolver, usati spesso per difendere il proprio onore o gli irriducibili ideali scaturiti dalla rivoluzione francese e dalle idee di Mazzini, Garibaldi e Carlo Marx. In gioventù il "Rosso" era stato un "risi'atore" tra i migliori, uno dei componenti la famosa carovana di Silenzio e faceva parte di quella ciurma leggendaria che a bordo di un gozzo mastodontico, prendeva il mare con qualsiasi tempo e a forza di remi si recava incontro ai legni diretti verso l'ansa sicura del porto di Livorno. Spesso questa barca possente oltrepassava anche la Meloria per contendere e strappare alle altre ciurme il diritto allo scarico e al carico delle merci, arrembando quasi le navi in arrivo, come facevano i saraceni. In questo modo conquistavano il diritto di pilotarle nel sicuro accosto della Darsena Vecchia e compiervi le indispensabili operazioni di manipolazione delle merci, fornitura d'acqua e viveri, soprattutto verdure, indispensabili ai marinai per combattere lo scorbuto.
Un modo periglioso e incredibile di guadagnare il pane quotidiano per la famiglia, ma in quei tempi il mestiere del "risi'atore", seppure molto pericoloso, non dava solo il pane, ma anche un certo benessere, dignità, ammirazione e autorevolezza tra la gente, ben oltre i confini del quartiere.
Il "Rosso" non aveva parenti. Morti i genitori, dopo qualche anno i suoi due fratelli erano scomparsi in mare, una sorella, la sua prediletta, si era innamorata di un uomo sposato e gli aveva ceduto senza sapere della condizione di lui. Abbandonata e incinta, si era buttata giù dal ponte del Porticciolo e le fredde acque invernali dei fossi l'avevano deposta, dura come il marmo, ma sempre bella, là, ai piedi della Fortezza Vecchia, sulla sabbia del cantierino disteso sulla parte finale della Tura, laddove i calafati costruivano e riparavano i navicelli, quei barconi enormi, neri e silenti al passaggio tra le case, sui quali si caricavano le mercanzie per portarle dalle navi ai fondaci e viceversa, attraverso la fitta rete dei fossi fatti costruire appositamente dai Medici, una autentica ragnatela che s'intreccia nel famoso "Pentagono" del Buontalenti.
Il giovane, chiuso in se stesso, il volto scolpito come uno scoglio dalle onde, aveva seppellito la sorella nel sepolcreto della chiesa, Padre Saglietto, leggendaria figura di monaco trinitario, sempre schierato accanto ai suoi parrocchiani, anche ai "senzadio", si era opposto alla volontà dei pii frequentatori della sua parrocchia di seppellire la bellissima Benedetta nello spoglio "campo dei suicidi" e aveva concesso questo privilegio alla sventurata fanciulla buona credente e caritatevole in modo evangelico. Rimasto solo al mondo, il giovane si era imbarcato su un legno di Marsiglia e era scomparso. Sei mesi dopo il corpo di Amedeo, il facoltoso commerciante che, ingannandola, si era preso sua sorella per poi abbandonarla vilmente, venne trovato sotto la Voltina con un lungo coltello piantato in mezzo al cuore. Era un coltellaccio della Provenza, con una punta capace di forare la pelle d'un orso e un filo da autentico rasoio. "Un arma micidiale" - aveva dichiarato il Delegato di polizia.
Si seppe qualche tempo dopo, ma la nave non si era registrata e nessuno poté provare niente, anche se furono in molti a sussurrarlo, che il brigantino di Marsiglia avesse fatto sosta per un'intera nottata a Bocca d'Arno, l'equipaggio aveva cenato dal Ghingheri, nella trattoria di legno costruita su palafitte piantate in riva al grande fiume, proprio sulla foce, rifugio di pescatori e contrabbandieri, ma l'oste smentì recisamente il fatto e del resto, nessuno in Venezia e in città, aveva visto il "Rosso". Quindi "si trattava di un evidente abbaglio" - concluse lo stesso Delegato che dalle autorità francesi aveva saputo come la nave, nella stessa notte dell'omicidio, si trovasse all'ancora nel porto di Bastia, da dove era salpata per Barcellona.
Viaggi in tutti i porti del mondo, esperienze incredibili e fantastiche, il giovane, intelligenza pronta, agile e forte, aveva trovato il tempo di imparare a leggere e a scrivere, apprendere una miriade di lingue e di dialetti e si era fermato per tre anni nelle terre algerine, viaggiando sulle roventi sabbie del Sahara fra predoni berberi e mercanti beduini, raggiungendo con le loro carovane e nelle loro scorrerie, i monti dell'Atlante e tutte le oasi fino al verde Niger. Si era arricchito e quando ritornò in Italia sbarcando a Genova, invece di recarsi a Livorno proseguì per Milano. Ad Algeri aveva conosciuto il proprietario del più importante giornale italiano e durante il viaggio verso il porto ligure era nata tra i due una duratura amicizia. Il "Rosso" aveva parlato delle sue peregrinazioni al potente uomo d'affari e questi, ascoltando le incredibili avventure narrate con sciolta parlantina e una vasta conoscenza, era rimasto affascinato e aveva proposto a quell'uomo ancora giovane, il volto bello, di cuoio per il sole assorbito sul mare e nel deserto, di scrivere alcuni lunghi reportages, iniziando a fare l'inviato all'estero per il suo giornale. Così il "risi'atore" veneziano si trovò a viaggiare per paesi lontani, frequentare uomini di stato, politici, industriali, inventori, capi di tribù mongole, indiane, cinesi e africane, ma sopratutto, entrò in contatto con molteplici culture e tradizioni, arricchendo ulteriolmente un bagaglio di conoscenze già vasto.
A Milano si era invaghito, corrisposto, di una nobildonna di famiglia risorgimentale, si erano sposati, lei gli aveva dato due figli, ma le peregrinazioni del marito, le lunghe assenze, l'avevano infine decisa a chiedere la separazione. La sua ricchezza era tale da non farle richiedere al "Rosso" nemmeno una lira per il mantenimento dei suoi figli che tenne lontani dal padre, per loro sempre più uno sconosciuto.
Alla fine di un lungo viaggio in Cina e in Mongolia, il famoso scrittore era ormai giunto al suo trentanovesimo anno di vita, stanco di viaggiare per tutti i continenti, aveva persino seguito la folle e stupenda corsa automobilistica "Parigi - Pechino", si mise a scrivere, quasi per scherzo un libro di avventure e il successo fu strepitoso, di conseguenza egli ne scrisse altri e, in breve, divenne immensamente ricco, di quattrini e di fama. La ex moglie, il suo tentativo di riconciliarsi con lei era fallito, dopo alcuni mesi si era trasferita negli Stati Uniti, dopo aver sposato un ricco industriale dell'automobile ed i suoi figli erano ormai perduti nella società dorata degli "States"
A quel punto, evitando le allettanti offerte della ricca Milano, irrequieto e stanco di vivere la vita degli opulenti salotti intellettuali di grandi città europee, decise di ritornare a Livorno, nella sua Venezia, il che avvenne quando di anni ne aveva quarantatre. Eppure al "Rosso" non se ne davano più di una trentina e quel suo volto bruciato dal sole di cento paesi diversi, sembrava il volto di un fanciullo, soprattutto per la luce che illuminava i suoi occhi di ghiaccio.
Acquistò una bella casa al primo piano di un palazzo signorile sugli Scali delle Ancore e dalle sue grandi finestre dominava l'intero "fosso reale" dell'antico quartiere e poteva ammirare lo spaccato bellissimo delle vetuste case e dei palazzi seicenteschi. Alla finestra del suo studio, come un dipinto di grande artista, si mostrava ai suoi occhi il fosso dominato dalla Chiesa di Santa Caterina dei Domenicani, il palazzo granducale, detto de il Refugio, la cui facciata dava sul viale Caprera e la bellezza di Palazzo Rosciano. Se cambiava direzione al suo sguardo, il dipinto si trasformava e ad apparire era la mole familiare della Fortezza Vecchia, sovrastante l'intero rione con l'Erta degli Arrisi'atori, autentica terrazza lanciata sul porto e sul quartiere, mentre davanti a lui si ergeva l'edificio detto de il Paradisino e poteva vedere anche uno scorcio della chiesa di "Crocetta", quella cara al suo cuore dove spesso si recava per i suoi muti colloqui con l'amata "sorellina". Dalle finestre della casa sentiva con piacere il brusio della vita operosa dei veneziani, il chiacchiericcio e le battute dei facchini del porto e dei navicellai che, seduti sulla spalletta del ponte sottostante che, dolorosamente, gli ricordava il suicidio della sorella, aspettavano una chiamata da qualche banco per recarsi a "fare la giornata". Ascoltava con sottile piacere l'argentino suono delle campane, soprattutto quelle di San Ferdinando, la sua "Crocetta", la chiesa della sua fede fanciulla, cresciuta all'ombra della torre campanaria sotto la quale era venuto alla luce e spesso ascoltava il suono argentino di una canzone cantata da una delle donne affacciate alle finestre a chiacchierare o stendere lunghe file di panni ad asciugare. Nelle ore di quiete, mentre sedeva alla sua scrivania scrivendo qualche storia, sentiva il fruscio dolce del passaggio di qualche navicello e non sapeva resistere, affacciandosi ad ammirare il lento avanzare del grande barcone nero sulle calme acque del fosso reale, sospinto dalla pertica usata da un solo uomo che camminava in su e giù sul passatoio, spingendo quella flessibile, lunga pertica rotonda, capace di dimostrare la giustezza della frase di Archimede: "Datemi una leva e vi solleverò il mondo."
Nel rione nessuno aveva dimenticato il figlio di Alceste e Filomena, il fratello della sventurata Benedetta e di quei due ragazzoni, uno morto alle Bocche di Bonifacio, l'altro a Capo Horn. Il "Rosso" venne quindi accolto con affetto, rispettato per ciò che era diventato, ma soprattutto, perché sul corpo della sorella aveva pianto silenziosamente, senza mostrare lacrime, mentre il dolore aveva invaso l'anima sua insieme alla glaciale calma con la quale aveva preparato la sua vendetta. Impassibile, nessuno lo aveva sentito profferire minaccia alcuna, chiara od oscura. Era un veneziano verace lui e aveva agito con l'intelligenza e la freddezza di un uomo vero e questo nessuno, nell'antico quartiere, lo aveva dimenticato.
Quella sera, come dicevamo all'inizio di questa storia, bastò uno sguardo tra il "Rosso" e Selica, una splendida donna snella e flessuosa come un giunco e dal volto che, con quegli occhi profondi come la notte, i capelli d'ebano e la pelle leggermente mora, la faceva discendere dal miscuglio di razze arrivate in questo quartiere nei secoli seguiti alla promulgazione delle leggi granducali, dette Livornine. Un amalgama dalla quale era uscito il tipico livornese verace, nelle cui vene scorreva un misto di sangue arabo e nordico, orientale e anglosassone.
Fu come una scintilla che incendia una foresta e i due seppero immediatamente come le loro vite si fossero intrecciate senza scampo. Era sicuramente amore. Non il trepido e puro sentimento tante volte cantato nei libri e in moltissime leggende, no, il loro non era uno di quei sentimenti fatto di candore e nascosti tremori, quasi sempre platonici, vissuti su timidi sguardi e trepidi sospiri. I due, lo seppero subito, nei loro occhi non c'era niente di poetico, ma l'incontrarsi di due fuochi violenti e inestinguibili, lo scontro di due destini, quasi sempre distruttivo.
Si avvinghiarono in un abbraccio frenetico, non appena la serata ebbe termine, due ore dopo la mezzanotte, nel portone della casa di lei, in un casamento situato nella strettissima via delle Acciughe, di fianco al nobile Palazzo Rosciano. Selica si era avviata, sola, verso casa; lo Svelto, Remigio Saettini, suo marito, era uno dei più conosciuti capovoga della città ed era sceso in mare di buon'ora per raggiungere una "norvegina", che Pistola (la Venezia è sempre stata un quartiere dove abbondano i soprannomi), il suo avvistatore più bravo, gli aveva segnalato.
Quando Selica dette la buonanotte all'ormai assonnata compagnia, era l'ultima del suo casamento ad andarsene. Quegli occhi da zingara, neri come un cielo notturno senza stelle, si erano fermati per un attimo solo in quelli del "Rosso" e nessuno vide il messaggio ch'ella gli inviava. Anche lui salutò e si diresse al ponte, ma, dopo un rapido sguardo in giro, scantonò furtivamente verso Palazzo Rosciano, inoltrandosi nel buio della stradina dov'era la casa di lei.
Dietro il portone semiaperto la donna lo stava aspettando senza dare un respiro, ma l'uomo aveva occhi di gatto e, allungando le mani, l'afferrò per le spalle e se la strinse al petto, poi le schiacciò le labbra di corallo con le sue e la lingua rapace iniziò a frugarle dentro la bocca che sembrava un forno, mentre le mani, come artigli, afferrarono il petto di lei, strinsero quei seni soffici e rotondi, eppure duri come il granito, poi calarono sul grembo e le dita s'introdussero nella rotondità delle sue cosce, inoltrandosi nel soffice vello che le adornava, accarezzando le delicate membra frementi tra l'inguine e il pube scoperto, perché lei, nell'attesa, si era strappata di dosso le candide mutande. Lo mordeva come una cagna in calore, mentre le dita del "Rosso" la penetravano, bagnandosi. Poi si ritrassero per alzare la triplice barriera dei gonnelloni. Egli si sbottonò la patta dei calzoni e infilò la donna, come quando si immerge lo spiedo nella morbida carne della cerbiatta per rosolarla lentamente tra le fiamme. Soffocate le grida, i due corpi vennero come colpiti dalla febbre terzana; lui sollevò leggermente Selica e spinse la sua schiena delicata e forte contro il muro. Lei circondò i fianchi di lui con le sue snelle gambe per farsi penetrare più a fondo, in uno spasimo di tale intensità capace, sicuramente, di scaraventarli in un'altra dimensione. Quando l'estasi esplose nelle loro membra e il cervello delirando cadde in una specie di beatitudine ultraterrena mai provata, i due si accasciarono per terra. Erano stremati, l'uno sopra l'altra, abbracciati come due esseri alla deriva, naufraghi in cerca di una spiaggia sicura.
Il silenzio della notte profonda era rotto soltanto dall'ansito dei loro petti, mentre il cuore di entrambi sembrava battere i colpi del cannone di mezzogiorno in Fortezza Nuova e per un momento pensarono a come quell' affanno febbrile potesse svegliare tutto il casamento.
Il Rosso continuò ad accarezzare lentamente, con dolcezza, la donna discinta e ancora fremente; i baci persero la dolcezza dei primi istanti seguiti alla vertigine e tornarono a farsi golosi, le bocche, due ventose. Il Rosso la penetrò di nuovo con una furia che sembrava volesse distruggerla, ma Selica rispondeva quasi con furore e le sue reni sembravano di ferro, l'opposto del suo grembo, aperto come un fiore al bacio della rugiada e del primo sole. Il corpo bellissimo e fragile di lei si offriva all'uomo entrato come il fulmine nella sua esistenza, rispondendo col sangue a chi succhiava tutta la sua linfa vitale, mettendole un fuoco ardente nel corpo e nei sensi scatenati, mentre una sete senza fine, mai estinta nei giorni che seguirono, saliva dalle sue vene e la rendeva preda di una frenesia incontrollabile.
Al mattino, quando il sole si era levato da poco a indorare i tetti e faceva brillare l'acqua dei Fossi Medicei intrecciati in un abbraccio eterno con le case di tutto il quartiere, il "Rosso" si mise a scrivere quel saggio sulle usanze mercantili dei popoli abitanti le immense steppe intorno a Samarcanda, una città stupenda, misteriosa, come avvolta nelle spire di un tempo che non voleva trascorrere, da lui visitata due anni prima come inviato del giornale di Milano.
Il suo pensiero non poteva, però, staccarsi dall'amplesso violento della notte, dalla passione incredibile scatenata da quella donna stupenda nel suo cuore, ormai chiuso, così credeva, ad un sentimento come quello che l'aveva spinto tra le braccia di lei. Voleva stringere ancora quel bellissimo corpo animale, pieno di fuoco. Il ricordo degli occhi di Selica, quella bocca vermiglia, la durezza cedevole dei seni, con le punte dei capezzoli erette, quasi piccoli falli, il pube stretto, da vergine e cedevole come la terra più fertile alla lama dell'aratro, ma capace di stringere lui in una morsa incandescente, lo eccitava ancora ed egli, per la prima volta nella sua vita, si accorse di amare con una profondità senza eguali il corpo e l'anima di Selica.
Dal canto suo, la donna, non aveva potuto dormire nemmeno un attimo. Tremava ancora, sembrava una canna esposta al vento di un tempestoso altopiano per la violenza e l'estasi che l'avevano investita come una mandria di cavalli imbizzarriti. Lo Svelto era rientrato all'alba, contento per aver conquistato una buona nave, stanco ma pieno di desiderio per questa sua donna un po' misteriosa eppure tranquilla. L'aveva abbrancata ed era entrato in lei con quel suo pene enorme dal quale ella non aveva mai ricevuto piacere. Quell'uomo primitivo, forte e snello, dalle movenze feline, l'aveva attirata nella sua rete (oppure era stata lei, con quel suo civettare pacato, quasi nascosto a farlo cadere nelle sue braccia?), ma sin dal primo amplesso Selica si era accorta come per lui contasse solo il proprio piacere, il soddisfacimento animale dei suoi sensi; lei era soltanto una fonte di godimento egoistico, individuale.
Col "Rosso" la fusione era stata istantanea. Il fuoco liquido di lei aveva incendiato la furia incandescente di quell'uomo solitario che da quando era tornato nella sua Venezia non aveva degnato di uno sguardo interessato alcuna donna. Ella ne era sicura, lo aveva stregato e lui, dal canto suo, le aveva stretto il cuore con un laccio mortale. Il pensiero di riaverlo tra le braccia riempiva la sua mente di un'ansia urgente e quando chiudeva gli occhi, subito se lo vedeva davanti, lo sentiva dentro di se, come quella notte nel buio del portone, dove per la prima volta nella sua giovane vita, aveva provato l'estasi di un orgasmo che l'aveva scagliata in una dimensione semplicemente fantastica.
Era stato un subitaneo amore o soltanto un'attrazione dei sensi che aveva rotto tutte le dighe di una moralità e di una serietà di comportamento da sempre insite in Selica? Un modo di essere e di agire imposto a se stessa da una ferrea volontà alla quale non era mai venuta meno, da quando Padre Saglietto, fresco parroco di Crocetta, aveva benedetto le sue nozze. Si, perché lei aveva sempre avuto il sangue inquieto e i suoi pensieri correvano incontro ai sogni, come se la vita si trovasse nei luoghi incantati visitati ogni notte, mentre dormiva. Lo Svelto l'aveva trovata intatta, ma Selica aveva sempre saputo, con la capacità di una veggente, come si sarebbe librata nei cieli della bellezza quando fosse scoccata la prima scintilla dell'incendio che un uomo le avesse appiccato addosso. Il suo corpo e la sua anima l'avrebbero trasformata in puttana e a lui, all'uomo da sempre atteso, avrebbe concesso tutte le perversioni di cui si sentiva capace, ma anche un amore assoluto ed eterno, dolce e tenero insieme.
Quando colui che aveva sposato si rialzò da lei per addormentarsi come un tasso in letargo, Selica lavò via da se ogni traccia di quell'amplesso che le dava una terribile nausea, quindi uscì di casa e si diresse al Porticciolo. Le finestre della casa del Rosso erano spalancate, ma di lui nemmeno l'ombra. Sull'angolo della piazza Vittorio Emanuele II lo vide e il cuore le diede un balzo dentro, rimbombando come un tamburo impazzito. Lui si stava avvicinando a grandi passi, ma non l'aveva vista. Avanzava sullo stretto marciapiede col Telegrafo spalancato e un gran fascio di giornali sotto il braccio. Era assorto nella lettura, poi alzò lo sguardo, quasi distrattamente, ma quando mise a fuoco la sua immagine, si fermò come impietrito. Si arrestò in attesa e a lei, mentre le gambe le si facevano molli, parve volesse penetrarla con lo sguardo, cercando contemporaneamente una qualche risposta nell'anima sua. Confusa, con un tumulto di sentimenti che l'accecava, pensò con terrore come tutti i passanti dovessero essersi accolti di quanto le passava nella mente e tambureggiava nel suo cuore. Camminava lentamente e nonostante l'ampio gonnellone, lui poteva vedere chiaramente, anche chiudendo gli occhi, la movenza conturbante, felina, dei suoi fianchi e immaginare il dimenarsi stupendo di quei glutei bellissimi, desiderabili.
Un cenno di saluto e, via, ognuno per la sua strada, ma nella luce dei loro occhi, in un attimo solo, essi si erano detti tutto, meglio e più di quanto avrebbero potuto comunicarsi in un lungo colloquio. Amore e passione, desiderio di stringersi e di annegare l'uno nell'altra. Mille parole inespresse, dalla chiarezza estrema. Un sentimento profondo, insoddisfatto, forsennato, legava ormai le loro vite e la sete di fondersi, violenta come una febbre, i due amanti lo sapevano ormai, non si sarebbe mai più acquietata.
Da quella notte erano trascorsi venti interminabili giorni e la loro smania non aveva avuto soste. Era cresciuta come l'onda di piena di un alluvione, pronta a scatenarsi con la furia inarrestabile della natura.
I rapporti tra Selica e lo Svelto erano tesi: i due sembravano corde di violino. Lui non riusciva a capire l'irrequieto aggirarsi per la casa di una Selica stralunata. L'aveva sdraiata tre volte sul letto e una sul tavolo di cucina e come sempre ne aveva goduto il corpo, ma si sentiva inquieto, come se avvertisse un qualche evento incombente. Non si era però accorto della rigidità di lei mentre la possedeva e mai avrebbe pensato come nella vita di quella sua donna bellissima e ombrosa fosse entrato un altro uomo.
Quel giorno le nuvole correvano sul cielo della Fortezza Vecchia e sembravano incombere come neri giganti sui campanili delle chiese e sui tetti delle case chiuse nell'intrico dei fossi. L'atmosfera era carica di elettricità. Giganteschi nembi, scuri come la notte, si accavallavano l'uno sull'altro coprendo la città di uno spesso manto di pece, carico di pioggia, solcato da un violento lampeggiare, mentre il rombo del tuono annunciava l'arrivo di un terribile uragano. Di lì a poco l'acquazzone si scatenò a valanga, portato sulle ali di un vento improvviso e furioso che investiva fischiando i palazzi del quartiere, infilandosi di punta, come un cavallo imbizzarrito, nelle strade. Uno dei più tremendi nubifragi mai registrati, mentre le saette solcavano il cielo lacerandone il tessuto e illuminando di blu luminoso, misto ad un bianco accecante, anche gli angoli più nascosti dell'antico quartiere. Il Rosso aveva assicurato le persiane, ma le aveva lasciate aperte, trattenendosi alla finestra ammaliato dal rincorrersi nel cielo nero come lo spazio profondo della miriade di fulmini che squarciavano l'improvvisa oscurità come se in alto una tela tessuta da giganti si lacerasse improvvisamente. Mentre ammirava la tempesta e il violetto, livido balenare delle folgori, gli parve di sentire un frenetico bussare alla porta e quando aprì, Selica, bagnata come un pulcino, gli si gettò contro il petto. Non ci furono baci, ma un frenetico mordersi, lacerarsi la pelle con dita simili agli artigli di una tigre affamata piombata sulla preda, percuotersi, quasi, spinti dal desiderio covato per giorni ed esploso come il temporale abbattutosi sulla città. La spogliò con violenza, la gettò sul letto, si spogliò a sua volta strappandosi i vestiti da dosso, sembrava impazzito e lei pure. Asciugò con il calore del suo il corpo bagnato di lei ed entrò nel grembo aperto della donna con la violenza di quel vento impetuoso che galoppava per le strade, si arrampicava sui muri delle case e volava sui tetti. Il mondo sembrava all'improvviso scomparso, infinitamente lontano dai due amanti chiusi da un qualche sortilegio, in una inaccessibile torre di cristallo e l'impeto del "Rosso" trovò pane per i suoi denti, perché Selica rispondeva ai suoi colpi con la libidine di una furia. Dopo il primo amplesso fu lei a coprire col suo corpo quello dell'amato. Piccoli baci, una raffica interminabile, golosa: sulla fronte, sugli occhi, su tutto il volto e la sua lingua lappò le labbra di lui socchiuse, le forzò, s'inoltrò nella chiostra dei denti, succhiò voracemente e uscì, cominciando a percorrere il fascio dei muscoli duri del collo di quel corpo possente con le umide, tumide, labbra. Poi fu sul suo petto, mordicchiando con intensità i piccoli capezzoli del "Rosso" ormai gemente, lo morse quel seno piatto d'uomo, poi discese lentamente. Sembrava una gatta impegnata a lappare il latte di una ciotola e dopo aver passato la lingua sul solco dell'inguine fu sull'oggetto del suo desiderio, duro e lucente, come fosse di rame e lo ingoiò, girandosi con felina agilità e schiacciando con il suo pube che brillava di umori il volto congestionato dell'amante.
Anche la lingua del Rosso si mosse, si aprì lentamente una strada tra le labbra profumate e penetrò fin dov'era possibile, baciò e morse la clitoride, divorò quella splendida donna sussultante come una barca sollevata dalle onde del mare in tempesta e mentre il suo seme inondava la bocca di Selica, lui credette di sprofondare nel magma incandescente di un vulcano, bruciante, ma profumato come il giardino dell'Eden.
Coperti da un velo lucente di sudore i due amanti giacquero spossati, accarezzandosi lentamente, con infinita dolcezza.
"Ti amo, Selica. Non credevo fosse possibile un sentimento come questo. Si fonde con una passione irrefrenabile, peccaminosa, quasi sacrilega, eppure tanto bella e candida. Sembra una bestemmia, dopo la frenesia che ha infranto barriere e pudori, eppure il mio amore per te possiede qualcosa di extraterreno, di spirituale".
"Anch'io provo queste sensazioni, mio dolcissimo uomo di ferro. Non mi sento sporca per quello che facciamo, mentre provo offesa quando lo Svelto mi prende come fossi cosa sua. Solo allora ho l'impressione di essere una puttana, non quando faccio l'amore con te. Con te e per te potrei morire, ne sono certa. E se divento sfrenata e tiro fuori quanto di peggio una donna possa esprimere con l'amante, è perché il mio amore, credimi, è più forte dei principi ed io lo sento puro e pulito più di ogni altra cosa al mondo. Me lo sento dentro: questo è l'amore vero, autentico, meraviglioso, quello che a una donna si presenta soltanto una sola volta nella vita, se è fortunata. L'irrefrenabile desiderio di fondermi con te mi spinge a travalicare qualsiasi forma di pudore, una spinta cui non so resistere, forse la voglia matta di annullarmi nell'anima tua e nel tuo corpo".
Tra i due era però il silenzio dei pensieri a prevalere. Ad essi bastava guardarsi, toccarsi, trasmettersi in questo modo mille sensazioni. Solo specchiandosi negli occhi l'uno dell'altro, riuscivano a comunicare, a dirsi tutto e, forse, nel tacito colloquio degli sguardi, di questo amore scoprivano l'unicità, la trascendenza. Quanto legava le loro esistenze era sicuramente un sentimento capace di lottare contro il mondo, anche a rischio della propria vita, senza valore se dovevano essere separati.
Il temporale continuava ad infuriare, sembrava volesse proteggere e prolungare questo incontro, in cui l'intrecciarsi del muto colloquio tra i due amanti pareva non dovesse finire mai. Le mani carezzevoli somigliavano alle bacchette di un direttore d'orchestra impegnato con il suo genio a condurre i suoi musicisti nelle spirali dolci e infinite della musica. Il contatto dei loro corpi dava nuovo respiro al desiderio, quasi un tormento che tornava ad ardere con rinnovato vigore nelle loro vene. I baci convulsi che si scambiavano sembravano irrorare l'anima di fuoco liquido, un ansito affannoso saliva su nei petti fusi, quasi, nell'abbraccio. Una smania di distruzione obnubilava le menti, sentivano la voglia di farsi male per estinguere quell'arsura dannata. Selica era stata morsa a sangue sulle labbra; i seni tumefatti, pieni di lividi bluastri. Il "Rosso" entrò di nuovo in lei con violenza, il suo corpo sussultava come colpito da un raptus. La donna stupenda ebbe un gemito di dolore. "Sei stretta come una vergine" - mormorava lui tra un colpo e l'altro dei reni. Poi il corpo flessuoso di Selica sgusciò dall'abbraccio. "Ora ti prendo io" - disse sommessamente e si mise a sedere infiggendo profondamente nel proprio grembo il pene di lui, per dare inizio ad una danza lasciva, una cavalcata capace di fare impazzire tutti e due. la sussultante frenesia di lei, il pene rinserrato nelle misteriose profondità del suo corpo, poi il "Rosso" la respinse afferrandola alla vita e la depose sotto di se con la faccia affondata sul cuscino. Si chinò sullo spettacolo dei glutei di lei, levigati e sodi, due forme così perfette da farlo impazzire di smania rabbiosa. Le apri come un frutto maturo e vi tuffò il suo viso, andando a lambire con la lingua il minuscolo triangolo di pelle tra le labbra della vagina e il bruno, fremente, minuscolo cerchio aperto sul mistero di Selica, ormai in deliquio. Trasformata in un'ossessa ella urlava parole incoerenti che raggiunsero il diapason quando il Rosso la penetrò dolcemente, forzando solo leggermente quel vallo meraviglioso. Fu una irreale cavalcata in una infinita libidine e il desiderio di entrambi, alla fine, eruppe come una valanga travolgendoli senza scampo.
Intanto il temporale sembrava placarsi, ma urlava ancora sui tetti, nelle strade della Venezia e sull'intera città. Un fortunale come non se ne ricordavano molti; forse la natura si era scatenata per cantare la loro violenta storia d'amore e di passione.
"Ti amo da morire" - "Con te per sempre" - Ma ancora il Rosso e Selica non si ponevano il problema di un futuro insieme, forse consapevoli di un destino segnato da sempre. Ben presto il fato inesorabile si sarebbe fatto vivo, presentando loro il conto di questa immensa, non certamente comune felicità.
"Noi rimarremo uniti, su questo puoi giurarci. Sembra impossibile, ma lo so con certezza. Siamo due esseri segnati dal Fato, non ci separeremo mai, nemmeno dopo la morte, perché siamo speciali e il nostro destino non finirà qui su questo mondo, ne sono certa".
Selica aveva aperto l'anima sua al mistero di ancestrali magie e sentiva diventare certezza questo fantasticare cui il "Rosso" prestava orecchio, credendole. Forse, egli, nei suoi innumerevoli viaggi, nel visitare paesi sconosciuti, aveva appreso misteri e leggende a lei estranee, ma nello stesso tempo conosciute in forma semantica diversa e per questo credeva al vaneggiare della donna. Anche lui, in fondo, era un uomo diverso, come non fosse di questa terra, non appartenesse alla specie umana e sentiva intorno a loro una presenza ignota, forse un cerchio di presenze sovrumane venute a proteggere dal mondo materiale l'incanto di quell'amore reale, corrotto per le leggi umane, eppure incorruttibile per l'eternità.
Nei giorni successivi i due amanti trovarono sempre il modo d'incontrarsi e ogni volta si prendevano con furia insaziabile e inusuale passione. Avevano fatto l'amore dietro le mura della chiesetta antica, in pieno viale Caprera, la strada nuova costruita sull'antico corso d'acqua. Si erano incontrati subito dopo l'imbrunire, tutti i portoni del rione erano diventati la loro alcova e una sera si erano fusi freneticamente sotto la Voltina, simili a due ossessi, posseduti da uno spirito incapace di avere requie. Erano queste furibonde battaglie d'amore a lasciarli prostrati, senza fiato, come se avessero fatto l'amore per una intera notte.
Da qualche tempo erano i navicelli ad ospitare i loro baci, i sospiri e le parole d'amore, l'amplesso sempre infuocato dei loro corpi. Accadeva nelle sere in cui lo Svelto era in mare. Seppure potessero, in quelle occasioni, amarsi nella casa di lui, chissà perché, preferivano fondersi sotto l'incantata luce delle stelle, sovrastati dall'immensità dell'universo. E fu uno di questi incontri a perdere i due amanti, così presi dalla profondità di quella magica pazzia, ancora così forte da impedire loro qualsiasi progetto per il futuro.
Toccò a Pistola scoprirli. Aveva bevuto come una spugna e si era gettato sul fondo di un navicello enorme, ancorato sotto il Paradisino per addormentarsi come un sasso. Era contento per aver avvistato una grande nave e permesso alla carovana del suo padrone di correre incontro alla scura sagoma profilatasi all'orizzonte e che nella notte di luna si distingueva ormai benissimo.
La luna, nel suo splendore, aveva già superato lo Zenith e sembrava appesa ai merli del Mastio di Matilde, quando il vecchio avvistatore fu svegliato da alcuni gemiti soffocati. Scosso di soprassalto dal suo sonno provocato dai fumi dell'alcool, lì per lì non seppe rendersi conto di quanto stava accadendo vicinissimo al suo vecchio corpo. Non sapendo come comportarsi e presagendo un qualche pericolo, era rimasto immobile, cercando di identificare la direzione del flebile lamento, di cui, però, dopo un solo momento d'incertezza, aveva compreso la natura, mentre un guizzo d'allegria sembrò ridargli lucidità. Schiarita la vista, la luna lo aiutò ad intravedere i due corpi avvinti. Un raggio argenteo aveva accarezzato per un istante il corpo della donna, le lunghe gambe ben tornite, i fianchi nudi, flessuosi come giunchi, due seni belli come i più bei frutti di un albero del Paradiso. La splendida donna si era voltata un attimo solo e Pistola, allibito e sconvolto, aveva scorto un volto bellissimo, sudato, la bocca semiaperta, ansante, circondato da una cornice nera d'ebano di capelli scarmigliati. Si, era Selica. Un trasalimento improvviso, rabbia e dispiacere, perché lui sapeva come lo Svelto non fosse a casa, ma si trovasse sulla sua barca che stava conducendo verso le secche della Meloria, incontro a quella nave con la quale avrebbe aggiunto altri allori alla leggenda della sua ciurma di risi'atori. Quindi Selica era distesa sotto il corpo di un uomo che non era quello del suo amico .
"Selica! - pensò - Ma com'è possibile? Una donna tanto perbene, rispettata, dolce e gentile, eppure tanto fiera". - Invece il suo volto da dea sembrava irriconoscibile, anche se bellissimo, come fosse stato colpito da un raptus. Il corpo di lei oscillava sul grembo di un uomo ancora nascosto tra le pieghe di un ampio mantello.
Una rabbia sorda e una gran pena per l'amico in mare nell'animo di Pistola. Era vecchio, sapeva come queste cose accadano spesso, aveva compassione della donna, ma in lui la fedeltà e l'amicizia per lo Svelto, ingiustamente tradito, era più forte e prevalse subito. Una rabbia sorda, un odio feroce contro i due amanti traditori.
Poi riconobbe anche l'uomo: "Il "Rosso"? Il tranquillo scrittore ormai nuovamente approdato nel suo rione, rispettato e amato da tutti, contraccambiava così, con un nero, bieco, vile, tradimento, i suoi amici, la sua gente gelosa dell'onore, rubando le donne altrui, sapendo bene come in Venezia queste fossero intoccabili? Lui, proprio lui che in altri tempi…."
Se ne andò quatto, quatto, Pistola. Lasciò soli i due amanti rapiti da un'altra dimensione, presi dalla frenesia dell'amplesso che non permise loro, isolati dal mondo, chiusi in un'estasi quasi ultraterrena, di accorgersi di quella nefasta presenza. Erano così presi l'uno dall'altra da lasciare fuori il mondo che per essi non esisteva più, almeno quella notte.
Il giorno aveva portato un libeccio tirato che s'ingolfava nelle strade del rione e strappava anche qualche rintocco alla campana piccola di Crocetta. Nel vento di marzo il bronzetto in cima al campanile sembrava suonasse a morto.
La voce si sparse in un lampo, con il clamore degli avvenimenti che non saranno mai dimenticati e diventeranno leggenda tra la gente.
"Sulla spiaggetta dei Calafati ci sono due morti. Una è Selica, l'altro corpo vicino a lei sembra quello del "Rosso", lo hanno preso a tradimento."
Si accalcava la gente intorno al cantierino dove si costruivano e riparavano i neri navicelli. Solo gli uomini d'eccellenza nel rione, assieme a Padre Saglietto, circondavano i due corpi senza vita. Esangue, Selica, ma bellissima ancora, con intorno alle labbra un sorriso accennato e gli occhi di giaietto spalancati a guardare il cielo e l'eternità insondabile del mistero. La sua mano diafana era strettamente intrecciata a quella del Rosso, anche lui con gli occhi spalancati, ma stranamente sereni, limpidi come fossero ancora vivi. Un fiore rosso sul petto di lui, colpito alle spalle da un lungo, acuminato coltello che gli aveva trapassato il torace, una sottile cordicella di velluto verde attorno al collo esile di lei.
Assieme al Delegato di Polizia arrivò anche lo Svelto, accompagnato, quasi circondato dalla sua ciurma. Tutti gli occhi si volsero al suo volto. Chiuso, impassibile, sembrava quasi non vedesse i due corpi. L'uomo della legge aveva già verificato come il capovoga fosse stato occupato tutta la notte a guidare una nave tra le secche, verso l'entrata sicura del porto. Egli con il duplice delitto non c'entrava, anche se il baffuto funzionario era certo fosse stato proprio il marito tradito ad ucciderli con le sue mani dure come l'acciaio. Strano, però - pensava il Delegato Formigli, anche il "Rosso" era un uomo forte ed esperto nella lotta, in ogni tipo di lotta. Perché non aveva opposto resistenza alcuna? Mah, chissà perché? Ah, dimenticavo, lui lo ha colpito a tradimento, un colpo al cuore dal polmone, probabilmente quando era ancora abbracciato alla donna. Sennò chissà come sarebbe andata a finire… Non credevo che lo Svelto fosse un vigliacco e questo atto, la mancanza di quel coraggio capace di fargli affrontare apertamente l'uomo che gli aveva rubato la donna e l'onore, i veneziani gliela faranno pagare. È certo."
L'uomo non volle più vedere la moglie, si allontanò dal corpo di Selica senza nemmeno guardarla e s'intrattenne con i suoi. Nessuno dei veneziani presenti gli fece un solo cenno, troppo il rispetto per lui, tradito e la compassione, forse anche il rimpianto, per quei due poveri morti, intorno ai quali già la gente intesseva la tela di un racconto da tramandarsi nei giorni e negli anni a venire, trasformandolo, poco a poco, in leggenda, rendendo così immortali gli sfortunati amanti.
Padre Saglietto rifiutò deciso la richiesta di qualche amico dello Svelto, perché ai due innamorati fosse negata la benedizione in chiesa: "Dio solo ha il diritto di giudicare, non noi con le nostre passioni, con i nostri giudizi, con gli errori compiuti ogni giorno" - affermò con voce che sembrava scolpisse parole sulla roccia. La sua autorità era tale da non permettere contestazione alcuna e nessuno, infatti, si sognò di avanzare anche la pur minima critica per l'indulgenza mostrata a chi peccatore era sicuramente.
Alla funzione, nonostante ci si potesse inimicare lo Svelto, trasferitosi per qualche tempo in un altro rione, c'erano tutti i veneziani e anche gente di altre zone della città. Si sa, la pietà spesso s'intreccia coi fatti clamorosi e i pettegolezzi volavano da un uscio all'altro, librandosi tra finestre e balconi. Gli innamorati, gli amori infelici e le tragedie che ne conseguono, inducono sempre il cuore della gente semplice al rispetto e al dispiacere. Al funerale erano presenti molti uomini della cultura nazionale, giornalisti, anche alcuni politici di sinistra. Del resto l'uomo non era soltanto un famoso inviato, ma i suoi libri venivano letti da milioni di persone e la stampa nazionale si era gettata a corpo morto sull'avvenimento.
Le due bare, circondate dagli incappucciati e dalla gente assorta nella preghiera o impegnata a "pillaccherare", ricevettero l'incenso e l'acqua benedetta. Il Dies Irae si levò solenne dal coro dei frati e delle suore del Paradisino; ancora una volta si saldava quel loro legame con il popolo, anche con gli atei più accaniti, i repubblicani, che in Venezia avevano l'abitudine di consigliarsi su tutto con Padre Saglietto. Come se non fosse un prete. Con essi, qualcuno che aveva confidenza con il trascendente, vide gli Antenati, i veneziani di sempre, gli Sgarallino, i Dodoli e tutti gli altri, seppure fossero scomparsi da tempo, si assiepavano tra le ombre della chiesa per assistere alla funzione e rendere omaggio al "Rosso", da sempre uno di loro, anarco socialista, ammiratore di Garibaldi e Mazzini, come spesso aveva scritto sul più importante giornale dell'epoca, asserendo che se fosse stato anche un giovinetto negli anni gloriosi del Risorgimento vittorioso, avrebbe combattuto al loro fianco.
Selica e il Rosso vennero seppelliti in una porzione di terreno sotto l'Erta degli Arrisi'atori, all'interno delle mura distese protettivamente intorno al convento dei Padri Trinitari. Il clamore finì come sempre accade, ma non la memoria popolare. Nelle sere di vento, in quelle d'inverno e quando in cielo brillano le stelle del plenilunio d'agosto, sono molti, anche oggi, i veneziani che giurano di avere visto i due amanti affacciarsi sul ponte, di fronte alla mole antica della Fortezza. Abbracciati a guardare ancora con tenerezza e amore quello strano quartiere che, distrutto dalla guerra, è ancora oggi colmo di magia. A distanza di un secolo, attraversato dai canali, è ritornato a vivere come rivive la Fenice. Un quartiere che per i suoi figli e i figli dei figli, rimarrà sempre il più bello, un angolo incantato di questo mondo in cui l'uomo e i suoi sogni rischiano ormai di rimanere senz'anima.
Cinque anni lontano dal rione, poi lo Svelto era ritornato dopo un nuovo matrimonio, ma, in breve, si era deciso a lasciare definitivamente la Venezia, continuamente turbato dal ricordo dei due sventurati amanti da lui sorpresi nell'amplesso, ma soprattutto spinto dall'atteggiamento riservato, quasi ostile dei veneziani nei suoi confronti. Questa gente povera, in lotta permanente per vivere, ma fiera, generosa e leale, non aveva dimenticato che il Rosso era stato colpito alle spalle e che la splendida donna, invece di essere stata trafitta da una coltellata al cuore, era stata vigliaccamente strangolata. Tutti gli abitanti di quel rione unico, avevano visto chiaramente nella loro mente la tragedia svoltasi nel buio della notte sulla sabbia del cantierino dove lavoravano i Calafati, sempre intriso dal forte odore della pece, così come avevano visto il coltellaccio dello Svelto saettare nell'aria senza un barbaglio schiantandosi sulla schiena del Rosso immerso nell'estasi dell'amore. Selica balzata in piedi, seminuda e scarmigliata, non aveva palesato paura alcuna; si era soltanto coperta la bocca con le mani per soffocare il raccapriccio e non palesare il dolore tremendo che aveva investito l'anima sua nell'assistere alla morte del suo amante. Era un estremo tentativo di far capire all'uomo che per il mondo era il suo sposo, come la Signora in nero non contasse niente per lei, rispetto all'amore vissuto con pienezza insieme a colui che era stato vilmente assassinato. Si era avanzata impavida e fiera verso il suo boia, gli occhi da saracena colmi di profondo disprezzo, porgendo il collo alla sottile cordicella impugnata dall'uomo. Uno strappo secco e la bellissima donna era caduta in ginocchio, ma nel suo ultimo barlume di vita, con uno sforzo sovrumano si era avvicinata all'amato sovra ogni altra cosa al mondo, afferrandogli la mano, prima di lasciare libero il suo spirito.

 
 

IL QUINTOMORO
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