Pagine di Storia: Deportati a Matelica
di Otello Chelli



Matelica

Matelica, un incantevole paese medioevale di collina, venne scelta per ospitare un centinaio di livornesi, quasi tutti del quartiere Venezia, deportati dal Gabbro, dopo una vivace protesta delle donne contro la milizia. Un paese sovrastato da monti coperti di boschi, dal clima parecchio diverso e, per almeno cinque mesi, coperto di neve. Eravamo gente avvezza a una vita da poveri e quindi acclimatarsi non fu difficile e, nonostante un linguaggio per noi incomprensibile, non fu difficile fraternizzare con quella gente che, a distanza di una vita, riesco a paragonare agli abitanti di Lunigiana e Garfagnana, gente avvezza al lavoro duro, ma tendenzialmente allegra come lo siamo noi livornesi. L'8 settembre, dopo la festa per la pace raggiunta, il clima si fece duro, l'aria pesante, la paura viaggiava sulla presenza dei soldati nazisti e delle milizie fasciste. Tra i livornesi si verificò una spaccatura. Alcuni giovani aderirono alle "brigate nere" che offrivano una vita all'epoca piena di agi, baldorie nelle bettole con donnine allegre e facilitazioni per le famiglie. Un gruppo di giovani raggiunse i partigiani su in montagna.



68° Anniversario Eccidio di Braccano 1° Centenario della nascita
di Don Enrico Pocognoni

La Città di Matelica commemora il 68° anniversario dell'eccidio di Braccano del 24 marzo 1944, che costituisce il momento più tragico e glorioso della sua Resistenza al nazi-fascismo nel corso della seconda guerra mondiale.
Celebra contemporaneamente il 1° centenario della nascita di DON ENRICO POCOGNONI (nato a Differdange,Lussemburgo, il 6 febbraio 1912), eroico protagonista e martire della Resistenza, medaglia d'oro al valore civile.
Sacerdote di profonda spiritualità, generoso verso i più deboli e bisognosi, colto e studioso delle tradizioni locali, come parroco di Braccano durante l'occupazione tedesca e la lotta di liberazione nazionale si prodigò in favore della popolazione e del movimento partigiano, nonostante ripetute minacce e intimidazioni, con grande rischio personale.

La mattina del 24 marzo 1944, catturato dai nazi-fascisti durante un rastrellamento su Braccano, Roti e Valdiola, fu brutalmente trucidato insieme ad altri cinque giovani partigiani; Demade Lucernoni, Ivano Marinucci,Temistocle Sabbatini, Thur Nur, Mohamed Raghè.

La Citta di Matelica, nel celebrare solennemente il sacrificio di questi giovani per la libertà dell'Italia, vuole nella ricorrenza del 1° centenario della nascita rendere omaggio a Don Enrico Pocognoni e onorarlo come fulgido esempio di virtù sacerdotali, civiche ed umane.

Che il suo ricordo resti imperituro fra le giovani generazioni.




Il Globo di Matelica


La Loggetta degli Ottoni


Uno scorcio del paese
L'atmosfera non fu più quella solidale e le liti erano continue a causa delle prepotenze dei brigatisti neri, giovani sfrontati e prepotenti. Una lite fra bambini diventava spunto per la sopraffazione e fu l'odio a dividere la comunità livornese. Ed ecco quanto inevitabilmente accade una sera. Con mio fratello minore, mi recavo ogni sera dai frati del Convento di San Francesco, non troppo distante dal casermone dove eravamo alloggiati e, dopo aver raccolto gli avanzi del pasto frugale dei frati, ci decidemmo a tornare in caserma. Il buio copriva con il suo manto impenetrabile l'intera Matelica e le campagne circostanti; il freddo era intenso, la neve era diventata ghiaccio sporco, in giro non c'era più un'anima. Passando vicino alla bettola di Guglielmo Fieschi, un antro nero, illuminato dalle candele, cui si accedeva scendendo una decina di ripidi scalini malmessi, vedemmo delle ombre infilarsi frettolosamente nella porticina del locale dove si beveva vino buono e si mangiava benissimo con quel po' di buon di dio che si poteva comprare al mercato nero.
"I partigiani! Vanno giù a prendere i fascisti e i tedeschi." - Era una constatazione colma d'attesa quella uscitami come in un soffio dalla bocca spalancata per la meraviglia. Sapevo bene come la bettola di Guglielmo fosse il luogo dove i militi neri, tra i quali i livornesi e parecchi tedeschi, si ritirassero tutte le sere per gozzovigliare portando con sé qualche donna compiacente, e, quando vidi entrare i partigiani, fu facile pensare a una probabile sparatoria.
"Dai, Ennio, vieni con me, c'è un'inferriata là dietro dove potremo vedere tutto."

Partigiani a Matelica
Quello stanzone semibuio, illuminato da grosse candele, mostrava soltanto ombre indistinte, perché i vetri della finestrella erano appannati e m'impedivano di vedere chiaramente quanto stava accadendo in quell'antro di Polifemo, ma la mia curiosità, quasi morbosa, era troppo forte e così, pigiando sul legno mezzo marcio della finestrella, riuscii ad aprire un bello spiraglio da dove dominavo tutto lo stanzone affumicato dalle candele, dal fumo delle sigarette e dal grande fuoco acceso sulle grandi pietre del camino. L'atmosfera era davvero allegra; tedeschi e neri gozzovigliavano con le loro donne e fra chiacchiere e risate la confusione era tale da impedire loro di accorgersi dei partigiani ormai apparsi ai piedi della scala. Un lungo tavolo nero e sporco, sette o otto fiaschi di vino, piatti pieni di polenta, salsicce, prosciutto, enormi fette di pane e puzzo di briao - pensai subito.
I partigiani erano entrati come ombre e nessuno sembrò vederli; si arrestarono per un attimo per farsi un quadro d'insieme della situazione, poi avanzarono verso il centro del locale con le canne dei mitra puntate.
"Fermi tutti - distinsi chiaramente le parole del capo partigiano - non vogliamo fare del male a nessuno, se nessuno tenta qualche azione sconsiderata."
Tra i partigiani c'era Nadio, un ragazzo di diciotto anni, fratello di Dina, la ragazzina con la quale in quei giorni scambiavo qualche carezza innocente. Nadio era il mio idolo. Lo ammiravo svisceratamente, chissà cosa avrei pagato per essere al suo posto. Accanto a lui, c'era Gino, il figliolo di Cesira, amica di mamma e accanto ancora Silvano, un ragazzo segaligno e nervoso, ma coraggioso come un leone. Tutti livornesi e tra i neri c'era Walter, il fratello di Brunetta, una ragazza di vent'anni di cui ero innamorato pazzo (ne avevo undici) e Sergio, un biondo naturale da sembrare più tedesco che italiano. Era nipote del comunista Oreste a cui, per la scelta fatta, aveva inflitto un fortissimo dispiacere. Più in là, Aldo di Franca, Bruno della Elvira, Alfredo di Anita, tutta gente dei nostri, livornesi come noi. Passò un momento lungo un'eternità. Sembrava una scena sospesa nel tempo, quella davanti ai miei occhi e la seguivo con il fiato bloccato in gola. Improvvisamente vidi Sergio, abbastanza defilato agli occhi dei Ribelli, armeggiare con una bomba a mano appesa al suo fianco, cercando di sganciarla. Ci riuscì e tolse la spoletta, ma mentre faceva il gesto di lanciarla, una raffica di mitra lo tagliò quasi in due e lui cadde, mentre la bomba stretta nella sua mano esplose, seminando mezza stanza di schegge mortali. Una pallottola sbrecciò la finestrella dov'ero affacciato, ma non mi ritrassi e vidi il fuoco incrociato delle traccianti inglesi scaturire dai Thompson dei partigiani che lanciarono numerose raffiche di mortali proiettili. Udii grida d'agonia, urla disperate di donne e il puzzo acre di sangue e di merda, mentre la sporca finestra - come Ennio mi disse in seguito - sembrava lampeggiasse. Pochi minuti, un'eternità per il mio cuore che batteva colpi su colpi, mentre la mia mente rimaneva confusa da una tempesta di pensieri e sensazioni, poi tutto finì, il silenzio regnò sovrano nella bettola. Allora presi Ennio per una spalla e mi spostai sulla stradina vedendo subito i partigiani tornare all'aperto carichi di armi e viveri, pieni di fuliggine. Nadio e gli altri ci videro, lui però fece un gesto tranquillizzante ai suoi e venne verso di me e, con voce piana, dove non c'era alcuna allegria, ma forse un dolore molto profondo, mi sussurrò: "Otellino, va a casa e scordati quanto hai visto, capito? Non parlarne con nessuno sennò faranno del male alle nostre famiglie, d'accordo?"
E mentre annuivo con forza, egli appoggiò la mano sulla mia testa arruffata e raggiunse i suoi compagni. Tre mesi dopo, ai piedi del monte di Camerino, nella pianura che portava a Sanseverino, Nadio cadde falciato dalla mitraglia mentre con due bombe a mano cercava di arrampicarsi su un carro armato Leopard per distruggerlo. Fummo io e mio padre, impegnati nella "cerca" di viveri, avevamo raggiunto Camerino e stavamo ritornando a casa, a raccogliere quel corpo, caricarlo su un carretto prestatoci da un contadino, e riportare il corpo ai suoi genitori, fratelli e sorelle.
La sera dell'eccidio il nostro casermone udì le urla e i pianti dei parenti dei giovani fascisti morti. Una sensazione di gelo serrava la gola di ognuno; nel cuore dei livornesi tutti c'era dolore e sofferenza, mentre crebbe immediata, dura come solo il rancore può erigere, la diga della diffidenza che già ci aveva divisi. Essa travalicò ogni argine e da allora congelò d'odio i nostri rapporti. Da quella sera la colonia degli sfollati labronici si divise nettamente in due e non ci fu verso, la morte di quei giovani pesava sulla coscienza di tutti e aveva aperto tra di noi una frattura senza fine.
La stessa notte i tedeschi irruppero negli androni dove vivevamo e dopo avere diviso la lana dalla seta - come disse in seguito Comunardo che abitava in piazza Cavallotti - minacciarono di uccidere tutti per rappresaglia. Ricordo un omaccione della Wermacht, brandiva sul mio muso la sua machinepistol urlando con voce rabbiosa:
"Kaputt, traditori kaputt! Noi uccidere tutti, capiren?"
Erano come bestie feroci, anche se questo paragone sembra offensivo per qualsiasi animale e, dopo aver messo al sicuro le famiglie dei caduti fascisti, minarono i grandi muri portanti della caserma, sprangarono le porte accingendosi a farci saltare in aria. Sennonché intervenne l'arcivescovo di Matelica, un vegliardo esile, dalla barba bianca, un frate cappuccino che pareva una di quelle figure di santi asceti fissata nei grandi quadri della cattedrale. Sembrava si reggesse sui fili, eppure quel vecchio debole e tremante, dopo ore e ore di trattative con il comando delle SS, riuscì, non si sa come, a farli recedere dalla decisione presa.
Di quel fatto di sangue tra fratelli, com'è facilmente intuibile, non si parlò più; fu come se ognuno avesse deciso di strapparselo dalla memoria, forse per il pudore o la vergogna di aver visto dei livornesi opporsi l'uno all'altro con le armi, sparare e uccidere i loro fratelli. Chissà. Non passò molto e una mattina camion della milizia fascista entrarono nella grande piazza d'armi del nostro casermone, caricarono le masserizie dei familiari dei militi uccisi nella bettola di Guglielmo, fecero salire a bordo quei nostri concittadini, ormai corpo estraneo ed ostile della nostra comunità e li condussero al Nord, secondo loro, più sicuro e accogliente. Un mese dopo i nazifascisti catturarono mio padre e altri tre livornesi impegnati nella "cerca" di viveri per le famiglie e li deportarono in Germania.
 
 

IL QUINTOMORO
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