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Marco
De Franchi
intervista
allo scrittore poliziotto
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Marco
de Franchi è nato a Roma ma vive a Livorno,
molti lo conoscono per i suoi libri più
recenti, i noir, come La Carne e il Sangue,
dove racconta una vicenda che si riconduce alle
indagini sulle nuove BR, però gli appassionati
di letteratura fantastica, i vecchi frequentatori
della casa editrice Solfanelli e del premio
Tolkien, gli abbonati di Dimensione Cosmica,
lo ricordano soprattutto - al pari dell'altro
scrittore livornese, Gianluigi Zuddas - per
la sua produzione fantastica.
Marco ha accettato di parlarci di sé.
"Allora,
cerco di mettere un po' d'ordine, rappresentando,
preliminarmente, che mi trovo sempre un po'
in imbarazzo a parlare di me e della mia vita.
Uno dei motivi per cui scrivo storie è
proprio per evitare di stare al centro dell'attenzione.
Insomma spero che i miei personaggi parlino
abbastanza per evitare che debba farlo io.
Nasco nel 1962 a Roma e come tutti i veri "scrittori"
nell'animo desidero da subito solo scrivere,
scrivere, scrivere… e pubblicare. Scrivere
senza avere dei lettori è un'assurdità.
Chi scrive VUOLE pubblicare. Non è questione
di notorietà o altro. È l'esigenza
di narrare e sapere che ci sono persone che
ascoltano la tua narrazione. A dieci anni sognavo
i miei libri dietro le vetrine delle librerie.
Non ho avuto il successo sperato, ma va bene
così.
M'innamoro della lettura di genere e in particolare
della fantascienza, che eredito da mio padre
(professore di Liceo, amante dei classici, ma
avido lettore di Urania), e della narrativa
gialla che eredito da mia madre, (donna dalla
cultura più umile ma grandissima, onnivora
lettrice).
I miei riferimenti sono, all'inizio, Simak,
Dick, Heinlein, Bradbury. Poi scopro l'horror
e la narrativa fantastica in senso lato. E allora
amo e divoro Lovecraft, Machen, Poe, e poi Herbert,
King, Straub, Blish, Barker, e tanti altri.
Però non disdegno la narrativa italiana
e i grandi noir."
E così cominci…
"Sì,
inizio a tentare di scrivere qualcosa di "professionale".
Il mio "esordio" è nel 1983
quando scopro il Premio di Narrativa Fantastica
"Tolkien", che Solfanelli edita con
la cura di due nomi del calibro di Gianfranco
de Turris e Giuseppe Lippi. Invio il racconto
"La Porta Magica", che non entra in
finale, ma stuzzica l'interesse di de Turris.
La Porta Magica è, infatti, un mix di
horror ed esoterismo, con un aggancio alla realtà
(m'ispiro, infatti, alla Porta Magica che sorge
al centro di Piazza Vittorio a Roma, un bell'esempio
di enigma esoterico-alchemico) e un interesse
per i personaggi "borderline". Il
protagonista è un omosessuale e scrivere
di questo nel 1983 non era proprio scontato
(almeno per me). Comunque de Turris mi telefona
(immaginate il mio stupore e la mia felicità)
e m'invita a collaborare con altri racconti,
sempre sulla stessa scia: uno sfondo storico,
reale e soprattutto italiano e uno sviluppo
magico/esoterico. La Porta Magica esce poi in
Francia (non è mai stato pubblicato in
Italia!) per una rivista specializzata molto
nota allora, Antares, curata da Jean Pierre
Moumon. Nel 1984 arrivo terzo al Premio Tolkien
con il racconto "La Città Scarlatta"
(in cui ci sono horror, magia sessuale, l'abisso
e la redenzione) e nel 1985 sempre terzo con
il romanzo breve "Gli Occhi nel Bosco".
Sono molto affezionato a questo romanzo (poco
più di cento pagine, un taglio che in
Italia non va molto, non è, infatti,
racconto e neanche romanzo) perché esce
nell'antologia "Immaginaria" di Solfanelli
insieme a un romanzo di Grazia Lipos (una scrittrice
triestina molto legata al Fantasy tradizionale)
e al vincitore di quell'edizione "Viaggio
per Lisa" di Luigi de Pascalis. Considero
de Pascalis uno dei migliori scrittori italiani
di narrativa fantastica. Già allora era
un mito e per me fu un onore pazzesco uscire
in un libro insieme a lui. Con Luigi poi, negli
anni, siamo diventati amici e adesso collaboriamo
stabilmente. Per me è un faro, una guida,
un grande aiuto. Ha curato l'uscita del mio
ultimo romanzo ed è semplicemente un
uomo e uno scrittore fantastico (a settanta
anni suonati si muove, scrive, inventa, progetta
come un ventenne).
Comunque, da quel momento, inizio a scrivere
e a pubblicare racconti qui e lì, con
alterne fortune."
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Le strade che intraprendi, sappiamo, sono
molte, fra le quali il mondo dei fumetti.
"Poiché
mi interessa la narrativa a tutto campo,
quindi anche quella cinematografica e
fumettistica, mi cimento in entrambe le
direzioni. Nel cinema non vado oltre qualche
soggetto e un trattamento che avrebbe
dovuto diventare una sceneggiatura e poi
un film, ma che poi non ha trovato produttori.
Nel fumetto invece la svolta è
venuta con le testate popolari Lanciostory
e Skorpio con cui per più di quattro
anni ho collaborato stabilmente. Ho scritto
qualche centinaio di sceneggiature per
fumetti e ne sono fiero. Quello del fumetto
è un campo molto stimolante. Mi
hanno "disegnato" autori di
razza e anche di questo sono contento.
In quegli anni vivevo di sceneggiature
per fumetti (e ho scritto anche qualche
fotoromanzo per le dedizioni Lancio, lo
ammetto. Non era un granché ma
pagavano bene. Scrivere fotoromanzi, inoltre,
insegna molto dal punto di vista delle
tecniche narrative)."
È a questo punto che comincia
la tua carriera di "sbirro".
Da un'intervista rilasciata a thriller
Magazine sappiamo che non ami definirti
un poliziotto scrittore, bensì
il contrario, cioè una persona
che, prima di tutto, scrive.
"Sì,
poi sono entrato in polizia. Studiavo
Legge, dovevo ancora fare il militare
ma soprattutto mi affascinava il mestiere
dell'investigatore. È il lato noir
che albergava in me. Poiché inoltre
non avevo il coraggio di provare la strada
della sola scrittura (che raramente dà
da mangiare) ho tentato questa strada
professionale e devo dire che non me ne
sono pentito. Il mio lavoro è sempre
stato la polizia giudiziaria ed è
un mestiere che ancora oggi, a venticinque
anni di distanza, mi sorprende e mi affascina.
Il lavoro in polizia - e il fatto che
fui trasferito in Toscana, allora a Massa
Carrara - rallentò però
e di molto la mia attività "di
scrittore". Per circa dieci anni
non ho scritto (né naturalmente
pubblicato) una sola riga. Non è
che non lo potessi fare (ci sono decine
di esempi di poliziotti-scrittori), è
che ero troppo concentrato su questo lato
del mestiere. E poi, è vero, non
sono mai stato uno sbirro-scrittore. Se
mai sono uno scrittore che fa di mestiere
il poliziotto.
Nel 1999 torno a Roma e come dire, mi
"risveglio" ed inizio di nuovo
a scrivere e a collaborare con de Turris
e quello che amo chiamare il "gruppo
romano" (a parte de Pascalis, Nicola
Verde, Roberto Genovesi, Errico Passaro,
Gabriele Marconi, anche Giulio Leoni,
Massimo Pietroselli, Alda Teodorani, Massimo
Mongai, e altri). Anche se all'inizio
è stato davvero difficile oliare
i vecchi arrugginiti ingranaggi.
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Era
come se la mia vena "fantastica" si
fosse esaurita e in qualche modo il tempo mi avesse
superato. Io insomma ero rimasto ai miei primi
tentativi che per quanto fortunati erano ancora
embrioni delle cose che volevo scrivere. Insomma
mi sembrava di aver perso il famoso treno."
Poi c'è stata l'esperienza forte
del gruppo Biagi, quella che, forse, umanamente
hai vissuto con maggiore partecipazione, quella
che ha stimolato la tua vena di scrittore e
dalla quale è scaturito il romanzo La
carne e il sangue, ispirato alla figura di Cinzia
Banelli.
"Nel 2003 entro a fare parte del "Gruppo
Biagi", il gruppo investigativo che raccolse
forze un po' da tutta Italia per individuare
gli assassini di Marco Biagi e, prima, di Massimo
D'Antona. Ero sempre stato affascinato dal fenomeno
del terrorismo, ma fino ad allora mi ero occupato
"professionalmente" di narcotraffico
e di antimafia. Investigare un fenomeno così
complesso e pieno di contraddizioni come il
crimine politico mi ha stimolato molto. Al di
là dei risultati (alla fine gli assassini
di Biagi, D'Antona e del collega Petri, le cosiddette
nuove Brigate Rosse, furono presi) e dell'arricchimento
professionale che ho avuto da questa avventura
(spesa tra Roma, Bologna, Firenze e Pisa), dal
punto di vista "letterario" mi si
è aperto un mondo. Per la prima volta
ho iniziato a "usare" il mio mestiere
di sbirro per alimentare il mestiere di scrittore.
Così nel 2008 è uscito "La
Carne e il Sangue", per Barbera, e una
serie di racconti ispirati agli anni di piombo
o semplicemente "noir" (di quel periodo
è l'intervista a Thriller Magazine).
Il noir è ancora una dimensione letteraria
che amo, ma ultimamente ho rallentato questo
tipo di narrativa (miei racconti noir o semplicemente
thriller sono usciti su antologie per Meridiano
Zero, Flaccovio, Laurum, Robin, ecc.). Mi pare
ci sia un sovraffollamento nel genere e in fondo
la cosa importante è scrivere una storia
a cui si tiene, il genere conta meno. Il noir
ti permette di indagare i lati più oscuri
dell'animo umano e soprattutto di trattare il
mistero nella vita quotidiana.
Viene per tutti, però, il momento
del ritorno a casa, alle origini.
"È
vero. Sono tornato da poco alla narrativa fantastica,
e ne sono felice. Non solo perché ho
ritrovato la dimensione che preferisco ma perché
qualcuno mi definì tanto tempo fa "una
promessa del fantastico italiano" e ho
sempre pensato di aver deluso questa aspettativa.
Chissà se a cinquant'anni posso ancora
provarci?
Comunque dal 2010 ho ripreso a collaborare con
de Turris (in quell'anno è uscita per
il Giallo Mondadori l'antologia da lui coordinata
"Il Filo del Rasoio") e i miei racconti
hanno ripreso a circolare. A maggio uscirà
per La Lepre Editore il romanzo "Il Giorno
Rubato", una sorta di thriller paranormale
a cui tengo molto. È un editore piccolo
ma molto serio e ha un bellissimo catalogo,
a mio parere. Da questo romanzo spero di ripartire,
riannodare qualche filo e, se ho fortuna, portare
a termine altri progetti.
Nel fantastico mi sento più a mio agio.
Penso che sia uno strumento con cui si può
aprire molte porte. È anche una luce
al cui filtro si può leggere l'intera
realtà. Ed io sono ancora fedele alla
massima di Roger Callois che definiva la letteratura
fantastica (cito a memoria e sicuramente senza
precisione) "l'irruzione improvvisa e inaspettata
dell'irrazionale nel razionale".
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E ora, visto che siamo su Livorno
Magazine, che cosa puoi dirci del tuo
soggiorno in questa città dove
, troppo spesso, nessuno è profeta?
"Dal
2005 vivo a Livorno. Sono "tornato" (come
dite pazzescamente voi livornesi quando
vi riferite al trasferimento in una nuova
casa) perché mia moglie, Debora,
è di Livorno e qui ha il suo lavoro,
e perché due figli piccoli reclamano
la presenza del padre. All'inizio questa
città non mi piaceva proprio. Non
mi ci riconoscevo e Roma mi mancava (mi
manca ancora!). Devo dire però
che adesso comincio ad apprezzare alcuni
aspetti della vostra città. E certe
strade, certi scorci cominciano a entusiasmarmi.
I livornesi non è che li capisca
molto, ma ne apprezzo la genuinità
e il senso dell'esagerazione. La vostra
rivista on line mi ha aiutato molto nello
scoprire alcuni aspetti nascosti di Livorno.
Così come venire a sapere che ci
sono altri scrittori che vivono qui e
che fanno i conti tutti i giorni con editori,
agenti, rifiuti, contatti, speranze, ecc.
Grazie anche per questo."
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Grazie a te, Marco, di cuore.
Patrizia Poli
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