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 | La 
                        Livorno dei miei tempi
 Ripensando 
                        alla Livorno dei miei tempime ne rammento molti, degli esempi:
 vedo Livorno di quandero bambina,
 di me fanciulla, poi ancor ragazzina
 e di quasi donna che sbocciava alla vita.
 
 La rivedo lacera e malvestita
 e poi lammiro con labito nuovo.
 La ricordo con le gite al Molo Novo,
 o ai retoni del Calambrone, col trenino,
 nelle liete scampagnate al Cisternino
 e nelle escursioni fino alla Puzzolente,
 ove si giungeva a piedi, gioiosamente,
 oltrepassando i binari sul ponticello
 liberty, di ferro, dopo quel gioiello
 del Corallo colle sue preziose Terme.
 Del progresso, anchesso, vittima inerme.
 
 Ripenso ai prati dAntignano: estate piena,
 mandolini fisarmoniche e cesti mandolini, con la cena,
 nelle fresche ore della sera incombente,
 col sole al tramonto, allorizzonte radente.
 Abbronzarsi allora non era di gran moda,
 curve abbondanti e carne bianca e soda
 eran, come si dice oggi, il must della bellezza:
 bella non lo era, la donna, per magrezza.
 
 Giunsero in seguito i tempi del Cantagiro,
 jeans coi risvolti dei giovanotti in tiro
 e larghe, fiorite, colorate gonne
 di ragazze che si reputavan donne,
 che non osannavan più i Villa e le Nille,
 ma Elvis e Adriano, che andavano a mille.
 Eccezion fatta per il Virgili Luciano,
 uno dei nostri, perciò di prima mano.
 
 Il filobus stava per andare in pensione,
 colle antenne sui fili in tensione,
 che volentieri mancavano la presa
 e rimetterle a posto era unimpresa.
 Rivedo, cogli occhi della nostalgia,
 una Livorno che non cè più, è 
                        volata via,
 assieme, aimè, alla mia gioventù,
 una Livorno che non tornerà più.
 
 Che bei tempi quandero una bimbetta
 e la gente andava a piedi o in bicicletta!
 Quando noi bimbi ci savviava a scuola
 e mamma si raccomandava a squarciagola
 di stare attenti ai barrocci e alle carrette,
 alle carrozze e alle poche motorette.
 Le Topolino, cherano ancora una rarità,
 strombettavano la loro superiorità,
 prima che diventasse popolare la "600"
 e che ci pigiassimo dentro la "500".
 
 Che bei tempi senza il traffico infernale,
 collaria pulita come dopo un temporale,
 quando la gioventù, coi suoi sapidi condimenti,
 dipingeva belli anche i brutti momenti!
 Eran quelli gli anni bui del dopoguerra,
 i mucchi di macerie sparsi per la terra
 e masse di baraccati in Coteto e in Fortezza.
 Livorno era diversa, la sua bellezza
 stuprata da crudeli, inesorabili bombe,
 che seppelliron gente e cose nelle tombe.
 
 La Livorno che ho conosciuto, da lì in avanti,
 era una città sciupata, ruderi pericolanti
 e palazzotti tirati su alla bellè meglio.
 Ben lungo fu per la mia città il risveglio,
 per la Livorno delle contraddizioni,
 per la Livorno delle rivoluzioni,
 dove ognun, tuttavia, trova il suo porto
 e può in pace coltivare il proprio orto.
 
 Or vi racconto della Piazza Cavallotti,
 Felice di nome: popolani incolti, rotti
 ad ogni evenienza gabbrigiane evenienza, con ceste
 enormi, colme, in bilico sulle teste,
 tra i banchetti mercanteggio e solidarietà,
 le viuzze trafficate, di gas asfissianti sgombre,
 rifugio fra fresche e odorose ombre.
 
 Vi racconto la piazza della mia giovinezza,
 di quel centro goduto nella sua pienezza,
 delle speciali battute intercorse
 tra venditori e popolane, accorse appena
 cera laccenno duna lite,
 le rimanenze donate, non smaltite.
 
 Vi racconto della vecchia via Buontalenti,
 dei pomeriggi a zonzo, trascorsi lenti
 fra i banchetti, antenati delle baracchine,
 duna città impressa su vecchie cartoline.
 A mano o a pedali, destate, vecchi carretti,
 spinti da uomini con bianchi berretti,
 giravan colmi di succulenti frutti,
 o gelati, per di accontentare tutti.
 
 Le fette, appoggiate su stecche di ghiaccio,
 le mangiavi fresche, di sera, alladdiaccio,
 per trovar sollievo dai diurni solleoni,
 con la gente a chiacchiera, fuori dai portoni,
 che recava da casa seggiole e panchetti.
 I bimbi allestivan mercati di giornaletti,
 o scambiavan le immortali figurine,
 lauto bottino dei circuiti con le palline
 o coi tappini, i piccoli giocavano a mondo
 per strada, a sculacciata e a girotondo,
 i più grandi a trottola, murino e ghinè,
 mentre le bambole piangevano i loro uè
 sui freschi marciapiedi della sera,
 in estate e nella tarda primavera.
 
 Pur si recava in giro il venditore di granite,
 con la pialla grattate, dagosto ambite.
 Cera anche il vinaio, col suo baracchino,
 che lo vendeva a bicchieri o a quartino.
 "Bimbi venite, che mamma ve lo compra!", gridava
 il chiccaio e come Mangiafuoco i fanciulli attirava,
 coi duri di menta, poi divenuti un epiteto,
 che ne bastava uno e il pargolo era lieto.
 
 Siamo or giunti ai quasi anni sessanta,
 con la dittatura della radio infranta
 dalla tivvù, lapparecchio delle meraviglie
 che a sera riuniva intere le famiglie
 ad assister nei locali a "Lascia o raddoppia?".
 Bambini, anziani, giovani sposi in coppia,
 tutti a tifare per Gino Lena che spopolava,
 divo più del Villa che gorgheggiava.
 
 Per chi nacque alla fine della guerra
 pochi segreti ancor Livorno serra
 dacché, almeno per sentito dire,
 i ricordi non tardano a sovvenire.
 Memorie di penicillina a borsa nera,
 di segnorine, Tombolo e di tanta miseria,
 di spose coi grembiuli gonfi di sigarette,
 collaria di cospiratrici da operette,
 di Nutelle non ancora inventate,
 ma che già venivan surrogate,
 dei primi mosciamelli colorati
 e daltre delizie di sapori incantati,
 di scampagnate che si chiamavan ribotte,
 di scioperi e delle prime sindacali lotte.
 
 Livorno dei miei anni giovanili fu tante cose,
 col sapor di nostalgia meravigliose,
 fu i cadetti con lo spadino pendente in qua e in là,
 ma anche le guerresche scintille coi parà,
 e fu il "nobile interrompimento" elevato
 là dove il re a cavallo aveva dominato.
 Furono i grattacieli presto innalzati,
 lun dopo laltro, come giganti fatati,
 prima allAttias e poi in piazza Roma.
 Alla Rosa un matton dopo laltro doma
 la campagna e la trasforma in città,
 che nel tempo ancor più si estenderà.
 
 Quando allAttias cera ancora una Villa
 certi malanni venivan curati con la camomilla,
 in Piazza Cavour abbondavan le adunate,
 lì le 100 primavere dellItalia ho festeggiate,
 le Feste dellUnità erano a Villa Regina
 e il Luna Park sul mare, alla viareggina.
 La rinomata luminaria natalizia
 per i forestieri era allor delizia
 e ai piedi dellalto abete elevato
 nella piazza, ai vigili dedicato,
 si ammucchiavan pacchi e dolci, dono
 dallautomobilista che chiedeva perdono.
 
 Allora il Politeama era un gran teatro,
 prima che vi passasse sopra laratro,
 e Livorno era piazza ambita per il varietà,
 le operette e i cantanti in voga a quei tempi là.
 Oggi se ne sono andati in pensione,
 anzi, di più, in rottamazione,
 quei cinema dove ho trascorso tanta gioventù,
 che senza riguardo hanno buttato giù
 e trasformato in parcheggi puzzolenti,
 mentre deserte lande, per lauti proventi,
 son divenute immensi divertimentifici,
 o parcheggi, nuovi mercati ed uffici.
 
 La Livorno dei miei tempi
., ma quali tempi?
 Fino agli anni 60 ne ho narrato alcuni esempi,
 ma è ormai lultimo anno di questi giunto
 e al mio lungo amarcord metto infine il punto.
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