Loretta Citernesi

Loretta Citernesi
La Livorno dei miei tempi

Loretta Citernesi racconta in versi le sue tante esperienze di vita, incentrate sulla sua amata Livorno, sui livornesi di scoglio e sulla livornesità, con quel filo nostalgico della Livorno di ieri mai dimenticato. Riesce, tra le righe, a catapultare il lettore, in quelle vie, in quei percorsi vernacolari, fatti di personaggi, voci, profumi e mestieri passati, con la semplicità di chi racconta la sua vita.
Autrice anche di poemi e racconti e di due commedie in vernacolo, delle quali una tutta in rima baciata. Premi e riconoscimenti testimoniano la sua arte.
di Fabio Marcaccini ..


Il venditore di latte


Le Fonti del Corallo


Il Cisternino di Città


Piazza Grande - Portici Pieroni


I Domenicani


Casini d'Ardenza


Palazzo Comunale


Palazzo del Refugio


Porta San Marco


Piazza Grande


Piazza Grande


Villa Barsanti Menicanti


Attias: Villa Bossio


Inizio '900: Via Grande


Palazzo Squilloni


Palazzo Mediceo


Chiesa Valdese
ex presbiteriana-scozzese


La Livorno dei miei tempi

Ripensando alla Livorno dei miei tempi
me ne rammento molti, degli esempi:
vedo Livorno di quand’ero bambina,
di me fanciulla, poi ancor ragazzina
e di quasi donna che sbocciava alla vita.

La rivedo lacera e malvestita
e poi l’ammiro con l’abito nuovo.
La ricordo con le gite al Molo Novo,
o ai retoni del Calambrone, col trenino,
nelle liete scampagnate al Cisternino
e nelle escursioni fino alla Puzzolente,
ove si giungeva a piedi, gioiosamente,
oltrepassando i binari sul ponticello
liberty, di ferro, dopo quel gioiello
del Corallo colle sue preziose Terme.
Del progresso, anch’esso, vittima inerme.

Ripenso ai prati d’Antignano: estate piena,
mandolini fisarmoniche e cesti mandolini, con la cena,
nelle fresche ore della sera incombente,
col sole al tramonto, all’orizzonte radente.
Abbronzarsi allora non era di gran moda,
curve abbondanti e carne bianca e soda
eran, come si dice oggi, il must della bellezza:
bella non lo era, la donna, per magrezza.

Giunsero in seguito i tempi del Cantagiro,
jeans coi risvolti dei giovanotti in tiro
e larghe, fiorite, colorate gonne
di ragazze che si reputavan donne,
che non osannavan più i Villa e le Nille,
ma Elvis e Adriano, che andavano a mille.
Eccezion fatta per il Virgili Luciano,
uno dei nostri, perciò di prima mano.

Il filobus stava per andare in pensione,
colle antenne sui fili in tensione,
che volentieri mancavano la presa
e rimetterle a posto era un’impresa.
Rivedo, cogli occhi della nostalgia,
una Livorno che non c’è più, è volata via,
assieme, aimè, alla mia gioventù,
una Livorno che non tornerà più.

Che bei tempi quand’ero una bimbetta
e la gente andava a piedi o in bicicletta!
Quando noi bimbi ci s’avviava a scuola
e mamma si raccomandava a squarciagola
di stare attenti ai barrocci e alle carrette,
alle carrozze e alle poche motorette.
Le Topolino, ch’erano ancora una rarità,
strombettavano la loro superiorità,
prima che diventasse popolare la "600"
e che ci pigiassimo dentro la "500".

Che bei tempi senza il traffico infernale,
coll’aria pulita come dopo un temporale,
quando la gioventù, coi suoi sapidi condimenti,
dipingeva belli anche i brutti momenti!
Eran quelli gli anni bui del dopoguerra,
i mucchi di macerie sparsi per la terra
e masse di baraccati in Coteto e in Fortezza.
Livorno era diversa, la sua bellezza
stuprata da crudeli, inesorabili bombe,
che seppelliron gente e cose nelle tombe.

La Livorno che ho conosciuto, da lì in avanti,
era una città sciupata, ruderi pericolanti
e palazzotti tirati su alla bell’è meglio.
Ben lungo fu per la mia città il risveglio,
per la Livorno delle contraddizioni,
per la Livorno delle rivoluzioni,
dove ognun, tuttavia, trova il suo porto
e può in pace coltivare il proprio orto.

Or vi racconto della Piazza Cavallotti,
Felice di nome: popolani incolti, rotti
ad ogni evenienza gabbrigiane evenienza, con ceste
enormi, colme, in bilico sulle teste,
tra i banchetti mercanteggio e solidarietà,
le viuzze trafficate, di gas asfissianti sgombre,
rifugio fra fresche e odorose ombre.

Vi racconto la piazza della mia giovinezza,
di quel centro goduto nella sua pienezza,
delle speciali battute intercorse
tra venditori e popolane, accorse appena
c’era l’accenno d’una lite,
le rimanenze donate, non smaltite.

Vi racconto della vecchia via Buontalenti,
dei pomeriggi a zonzo, trascorsi lenti
fra i banchetti, antenati delle baracchine,
d’una città impressa su vecchie cartoline.
A mano o a pedali, d’estate, vecchi carretti,
spinti da uomini con bianchi berretti,
giravan colmi di succulenti frutti,
o gelati, per di accontentare tutti.

Le fette, appoggiate su stecche di ghiaccio,
le mangiavi fresche, di sera, all’addiaccio,
per trovar sollievo dai diurni solleoni,
con la gente a chiacchiera, fuori dai portoni,
che recava da casa seggiole e panchetti.
I bimbi allestivan mercati di giornaletti,
o scambiavan le immortali figurine,
lauto bottino dei circuiti con le palline
o coi tappini, i piccoli giocavano a mondo
per strada, a sculacciata e a girotondo,
i più grandi a trottola, murino e ghinè,
mentre le bambole piangevano i loro uè
sui freschi marciapiedi della sera,
in estate e nella tarda primavera.

Pur si recava in giro il venditore di granite,
con la pialla grattate, d’agosto ambite.
C’era anche il vinaio, col suo baracchino,
che lo vendeva a bicchieri o a quartino.
"Bimbi venite, che mamma ve lo compra!", gridava
il chiccaio e come Mangiafuoco i fanciulli attirava,
coi duri di menta, poi divenuti un epiteto,
che ne bastava uno e il pargolo era lieto.

Siamo or giunti ai quasi anni sessanta,
con la dittatura della radio infranta
dalla tivvù, l’apparecchio delle meraviglie
che a sera riuniva intere le famiglie
ad assister nei locali a "Lascia o raddoppia?".
Bambini, anziani, giovani sposi in coppia,
tutti a tifare per Gino Lena che spopolava,
divo più del Villa che gorgheggiava.

Per chi nacque alla fine della guerra
pochi segreti ancor Livorno serra
dacché, almeno per sentito dire,
i ricordi non tardano a sovvenire.
Memorie di penicillina a borsa nera,
di segnorine, Tombolo e di tanta miseria,
di spose coi grembiuli gonfi di sigarette,
coll’aria di cospiratrici da operette,
di Nutelle non ancora inventate,
ma che già venivan surrogate,
dei primi mosciamelli colorati
e d’altre delizie di sapori incantati,
di scampagnate che si chiamavan ribotte,
di scioperi e delle prime sindacali lotte.

Livorno dei miei anni giovanili fu tante cose,
col sapor di nostalgia meravigliose,
fu i cadetti con lo spadino pendente in qua e in là,
ma anche le guerresche scintille coi parà,
e fu il "nobile interrompimento" elevato
là dove il re a cavallo aveva dominato.
Furono i grattacieli presto innalzati,
l’un dopo l’altro, come giganti fatati,
prima all’Attias e poi in piazza Roma.
Alla Rosa un matton dopo l’altro doma
la campagna e la trasforma in città,
che nel tempo ancor più si estenderà.

Quando all’Attias c’era ancora una Villa
certi malanni venivan curati con la camomilla,
in Piazza Cavour abbondavan le adunate,
lì le 100 primavere dell’Italia ho festeggiate,
le Feste dell’Unità erano a Villa Regina
e il Luna Park sul mare, alla viareggina.
La rinomata luminaria natalizia
per i forestieri era allor delizia
e ai piedi dell’alto abete elevato
nella piazza, ai vigili dedicato,
si ammucchiavan pacchi e dolci, dono
dall’automobilista che chiedeva perdono.

Allora il Politeama era un gran teatro,
prima che vi passasse sopra l’aratro,
e Livorno era piazza ambita per il varietà,
le operette e i cantanti in voga a quei tempi là.
Oggi se ne sono andati in pensione,
anzi, di più, in rottamazione,
quei cinema dove ho trascorso tanta gioventù,
che senza riguardo hanno buttato giù
e trasformato in parcheggi puzzolenti,
mentre deserte lande, per lauti proventi,
son divenute immensi divertimentifici,
o parcheggi, nuovi mercati ed uffici.

La Livorno dei miei tempi…., ma quali tempi?
Fino agli anni ’60 ne ho narrato alcuni esempi,
ma è ormai l’ultimo anno di questi giunto
e al mio lungo amarcord metto infine il punto.

 
 

IL QUINTOMORO
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