Maurizio Silvestri
STORIE BESTIALI MI CHIAMO ROSSZ
a cura di Maurizio Silvestri
Mi chiamo Rossz che in ungherese vuol dire cattivo. Non so se il mio patrigno ha voluto appiccicarmi questo nome per vendicarsi di mia madre che mi ha messo al mondo con un altro. So che cattivo non mi sento anche se tanti che mi stanno intorno fanno di tutto per evitarmi e chiudermi in un recinto. Da solo. Sempre da solo.
Sono un extracomunitario l'avrete già capito. Nato per strada, col mio patrigno e mamma che però non l'ha voluto vicino, quell'uomo, nel momento del parto. Dopo sì, quando non ne poteva più e d'altronde qualcuno doveva procurarci qualcosa da mangiare. Lui ci ha pensato, a suo modo. Avvolti in una coperta con mamma ed i miei fratelli abbiamo vissuto i primi giorni in una piazza ed anche i giorni successivi, a fare pena alla gente.

A qualcuno anche schifo perché diceva che non è giusto speculare sulla vita per far soldi. Così non ci faceva neanche l'elemosina e ne andava in pace con sé stesso. I più ci hanno portato da mangiare. Al mio patrigno hanno dato qualche soldo, pochi ma che a lui bastavano per fumarsi qualcosa, bere, comprare un po' di latte per mamma.

Alla fine mi hanno adottato. Mi ha preso una famiglia. Così, alla buona, senza tenere conto della legge sull'affidamento. Ma nessuno si è preoccupato: siamo extracomunitari, chi se ne frega. Sono cresciuto con queste persone. Imparando il loro, vostro modo di vivere, una cultura diversa, diversi modi di mangiare. Non più il latte di mamma che non ho visto e forse non rivedrò mai più perché lei, malgrado tutto, è sempre fedele al mio patrigno, al suo uomo che non abbandonerà mai, dal quale si farà sfruttare in ogni modo senza ricevere niente. E va già bene se non la pesta a sangue anche di fronte a tutti perché di noi, esseri di strada, nessuno si cura. Anzi, c'è chi è ancora convinto che la nostra sia una scelta, un modo di vivere che ci piace, un rifiuto del benessere della società civile. Sono ancora con la famiglia che mi ha adottato. E sto bene. Ho passato con loro bei momenti e li vivo anche oggi anche se non è facile abituarsi alla vita cosiddettta normale. Colazione, passeggiata al parco giochi, pranzo, sonnellino, altra passeggiata e poi la cena. Ah gi. Anche la scuola con un maestro pacioccone che mi piace: faccio cosa mi pare. Poi televisione ed a letto. Mi manca, spesso, la vita libera della strada, il freddo del marciapiede, la coperta nella quale ci avvolgevamo con mamma ed i miei fratelli.

Mamma soprattutto mi manca. Mi hanno portato via da lei troppo presto: avevo, ho ancora bisogno di lei, dei suoi insegnamenti, anche della sua durezza.
In questa casa sono tutti buoni, faccio quello che voglio ed mi piace. A volte mi chiedo se è giusto che sia così. Ma preferisco non rispondermi. E mi perdo nei miei giochi, nella tappezzeria e sui divani su cui saltare in barba ai divieti. Loro a volte mi puniscono ed io il giorno dopo lo rifaccio. La vedremo chi si stancherà prima. Del resto, hanno voluto prendermi dalla strada e questo avranno. Ma non tutti. Con la mia nuova mamma sono diverso. Mi fa tenerezza, mi abbraccia, mi culla e il più delle volte non mi fa rimpiangere la mia di madri, quella sparita con il patrigno. La mia nuova mamma mi porta fuori, a giocare. Vorrebbe fare tanto per me ed io non riesco a farle capire che va bene così. Che mi manca solo un po' di libertà, di strada, di bosco, di foresta come quel Buck di un libro che mi hanno raccontato visto che sono troppo piccolo per leggere.

Sto crescendo, ogni giorno mi sento più grande e forte. Il tempo è volato e gli altri, quelli che un tempo mi trattavano con sufficienza cominciano a temermi. Anche troppo. Al parco hanno cominciato ad evitarmi. Le altre madri tengono i loro piccoli lontani da me. Perché sono un extracomunitario e si vede. Perché appartengo ad una razza pericolosa. Perché, siccome sono fatto in un certo modo, nel modo che ha voluto il buon Dio - perché ognuno ha il suo Dio, ovunque nasca e comunque lo chiami - ecco, siccome sono così, mi si deve evitare, allontanare. E così mi trovo solo a correre nei prati, a giocare con la mia nuova mamma che soffre con me questa emarginazione. Gli altri li vedo allontanarsi, provo a chiamarli e si voltano per la verità.

Ma le loro mamme li strattonano via, come fossi una bestia immonda, pericolosa. Da evitare. Tutto questo non mi fa bene. Non fa bene alla mia salute mentale e mi fa venire una grande rabbia. Mi viene da odiare gli altri ma non è colpa mia. Mamma mi ha raccontato quella storia di quel tedesco, Brecht mi pare o qualcosa del genere: la storia dell'imbecillità. Dice quel signore tedesco che un giorno qualcuno l'obbligò a scendere dal marciapiede. Perché la legge diceva che doveva fare così. Una legge stupida, pensò quel Brecht il quale non aveva mai fatto caso all'importanza di stare sopra o sotto un marciapiede. Da quel momento cominciò ad odiare quelli che gli davano un ordine tanto assurdo. E diventò, come gli altri, imbecille.
Io non voglio diventare imbecille né razzista come le mamme dei miei amici. Loro, i piccoli, mi guardano con gli occhi lucidi e mi fanno capire che devono andarsene perché li portano via ma che vorrebbero stare con me. Sì, qualcuno tra i più grandicelli non mi osserva con dolcezza: sono stati già inquadrati dal sistema e, ormai, la vedono come gli adulti.
Ma è giusto tutto questo? Per me no. Per me che sono nato in strada, che ho vissuto di elemosine ed espedienti, la vita è un'altra cosa. Libertà, libertà. La grido da tutti i pori, l'abbaierei alla luna se ne fossi capace ed anche a tutti gli esseri della terra.



Libertà, uguaglianza, fratellanza. Sento dire queste cose da mamma che ancora studia all'Università. Le ripete meccanicamente a libro chiuso per ricordarle e raccontarle ad un uomo, tra qualche giorno, che in cambio le darà un voto. Come mamma tanti hanno letto, studiato e ripetuto quelle frasi. Meccanicamente, senza capirle. Ed io, che le ho vissute vorrei gridarle a squarciagola. Ma non posso. Malgrado mi stia avvicinando all'età adulta e viva da tempo in questa società non riesco ad esprimermi nella vostra lingua e la mia, purtroppo, non riuscite ancora a capirla. Parola di Rossz signori. Condannato dal nome e dall'aspetto ad essere cattivo perché nelle mie vene di meticcio scorrono sangue di rotwailer, pittbull, pastore tedesco e corso ed un barbone si è divertito a chiamarmi come mi chiamo.
Certo, ho detto rotwailer, corso. Come, non l'avevate ancora capito? Ebbene sì, avete ascoltato il lamento di un cane meticcio di undici mesi di 50 chili. Mezzo quintale di libertà e di amore. Ma a voi piace di più chiamarmi bastardo.
 
 
 

IL QUINTOMORO
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